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Usa in pressing su Tel Aviv per il cessate il fuoco, ma i raid su Gaza non si fermano

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Da un lato, il presidente degli Usa Donald Trump starebbe pressando il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, per convincerlo a chiudere la guerra nella Striscia di Gaza; dall’altro, i raid dell’esercito israeliano (IDF) continuano come nulla fosse, con gli Stati Uniti che annunciano una nuova maxi fornitura di armi per lo Stato ebraico.

Si muove su queste due opposte direttrici il futuro del Medio Oriente, dove – almeno per il momento – permane il preoccupante stallo nei negoziati di pace. Uno stallo che, secondo Taher Nunu, alto funzionario di Hamas, dipende esclusivamente dal governo di Tel Aviv, che rifiuta di negoziare, a differenza di quanto sarebbe disposto a fare il movimento terroristico palestinese, che “è pronto a trattare la fine delle ostilità”, al punto da aver aperto – per la prima volta dall’inizio del conflitto – a un possibile accordo che includa il disarmo del gruppo, l’eventuale esilio dei suoi alti dirigenti nei Paesi “amici” e il ritiro delle truppe israeliane.

Il problema, secondo Nunu, è che Netanyahu, per ora, starebbe resistendo “al pressing di Trump”, come emerge con chiarezza dal fatto che “al momento non sono previsti incontri” tra le parti per arrivare all’agognata fine dei combattimenti.

Usa in pressing su Bibi per la pace. Ma i raid su Gaza non si fermano

Insomma, la situazione sembra senza speranza. Eppure, la svolta potrebbe essere letteralmente dietro l’angolo. Come riporta il Times of Israel, Netanyahu e Trump si incontreranno a Washington il prossimo 7 luglio – a due settimane esatte dalla fine del conflitto con l’Iran – per discutere della situazione mediorientale.

Un vertice, già confermato da entrambi i leader, in cui verrà affrontato il tema della liberazione degli ostaggi – che, secondo l’amministrazione USA, può avvenire solo attraverso negoziati di pace – e dove troverà spazio anche la possibile espansione degli Accordi di Abramo, che, almeno nelle intenzioni, dovrebbero pacificare l’intero Medio Oriente.

La maxi fornitura di armi americane a Israele

In attesa di capire se la diplomazia, a distanza di 20 mesi dall’inizio del conflitto nella Striscia di Gaza, possa finalmente ottenere risultati, Israele continua a martellare l’enclave palestinese. E lo farà anche grazie alla nuova maxi fornitura di armi, approvata dal Dipartimento di Stato degli Usa, per un valore di circa 510 milioni di dollari.

Stando a quanto riportano i media di Tel Aviv, gli acquisti riguardano 3.845 kit di guida JDAM per l’uso di bombe BLU-109 e 3.280 kit per bombe MK-82. Ma non è tutto: Israele riceverà anche supporto logistico e ingegneristico dal governo statunitense e da appaltatori privati, così da migliorare ulteriormente le capacità di autodifesa dello Stato ebraico.

Strage di innocenti

Quel che è certo è che, intanto, nella Striscia di Gaza si continua a morire. A far rumore è soprattutto l’attacco dell’IDF al porto di Gaza City, in cui è stato colpito un affollato internet café dove hanno perso la vita almeno 39 civili. Una barbarie, duramente condannata dall’ONU e dalle ONG, secondo cui è stata presa di mira una struttura frequentata soprattutto da giornalisti. L’IDF ha giustificato l’azione affermando che lì sarebbero stati presenti “terroristi di Hamas”. Davanti alle prove fornite dalle ONG, che dimostrerebbero il contrario, l’IDF ha fatto sapere di aver aperto un’indagine per chiarire eventuali responsabilità.

Una giornata di sangue in cui non è mancato nemmeno l’ennesimo attacco nei pressi di un punto di distribuzione degli aiuti umanitari, nei pressi della città di Rafah, in cui sarebbero stati uccisi tre palestinesi. Di fronte a questo nuovo blitz, il sottosegretario generale delle Nazioni Unite per il Medio Oriente, Mohamed Khaled Khiari, ha pesantemente criticato il governo Netanyahu: “Condanniamo fermamente le uccisioni e i ferimenti dei palestinesi che cercano aiuto a Gaza e chiediamo un’indagine immediata e indipendente su questi eventi, e che i responsabili siano chiamati a risponderne”.

Un appello che, però, sembra essere caduto nel vuoto, visto il silenzio delle autorità israeliane.

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Zelensky attacca Putin e avverte Trump: “La pace non può aspettare 50 giorni, le sanzioni servono subito”

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Con i missili che continuano ad abbattersi su Ucraina e Russia, Volodymyr Zelensky e Vladimir Putin continuano a rimpallarsi la responsabilità per i mancati progressi nei colloqui di pace.

In un’intervista al New York Post, il leader di Kiev ha dichiarato che il presidente russo “non è pronto a un compromesso. Ha fatto perdere tempo a Donald Trump. Vorrei che gli Stati Uniti, il Congresso e il presidente facessero pressione con le sanzioni. Prima si fa, meglio è”.

Il riferimento è al (quasi) ultimatum lanciato dall’inquilino della Casa Bianca all’omologo del Cremlino: se entro “50 giorni” non verrà siglato un accordo di pace, gli Stati Uniti imporranno “sanzioni mai viste” alla Russia. Una linea che Zelensky ha accolto con favore, pur sottolineando come la tempistica sia “troppo lunga”, perché – ha spiegato – “per noi ogni giorno di guerra comporta più morte e distruzione”.

Zelensky attacca Putin e avverte Trump: “La pace non può aspettare 50 giorni, le sanzioni servono subito”

Una posizione condivisa anche dal capo dell’Ufficio presidenziale ucraino, Andriy Yermak, che al britannico The Times ha spiegato come il presidente degli Stati Uniti potrebbe porre fine alla guerra in Ucraina entro la fine del 2025, qualora decidesse di introdurre nuove sanzioni economiche contro i Paesi che acquistano energia e materie prime dalla Russia.

Secondo Yermak, “solo i problemi economici possono davvero mettere sotto pressione il dittatore russo Vladimir Putin” e costringerlo a riconsiderare la prosecuzione del conflitto.

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A Gaza colpita pure la chiesa della Sacra Famiglia: ferito padre Romanelli. Meloni & co protestano, ma Conte li mette in riga: “Dopo mesi di silenzio ci risparmino le dichiarazioni e le frasi ipocrite”

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Malgrado le incoraggianti notizie sull’accoglimento, da parte di Hamas, della nuova proposta di pace di Israele, sulla Striscia continuano a piovere le bombe e a verificarsi “incidenti” – come li definisce l’Idf – l’ultimo dei quali ha riguardato la chiesa della Sacra Famiglia a Gaza, colpita da alcuni missili israeliani. Un raid che ha indignato la comunità internazionale e in cui si sono registrati diversi feriti, tra cui padre Gabriel Romanelli – fortunatamente in modo lieve, a una gamba – e altri sei civili, due dei quali verserebbero in “condizioni critiche”.

Un bombardamento scioccante, difficilmente derubricabile a mero incidente, che ha colpito – danneggiandola seriamente – l’unica chiesa cattolica della Striscia, dove da mesi trovavano riparo dai bombardamenti circa 600 persone, sia cristiane che musulmane.

La reazione italiana

Dopo l’attacco, non sono mancate le reazioni dall’Italia. “I raid israeliani su Gaza colpiscono anche la chiesa della Sacra Famiglia. Sono inaccettabili gli attacchi contro la popolazione civile che Israele sta compiendo da mesi. Nessuna azione militare può giustificare un tale atteggiamento”, ha dichiarato la premier Giorgia Meloni. “Gli attacchi dell’esercito israeliano contro la popolazione civile a Gaza non sono più ammissibili. Nel raid è stata colpita anche la chiesa della Sacra Famiglia a Gaza, un atto grave contro un luogo di culto cristiano. Tutta la mia vicinanza a padre Romanelli, rimasto ferito durante il raid. È tempo di fermarsi e trovare la pace”, ha scritto su X il ministro degli Esteri, Antonio Tajani.

Parole, quelle rilasciate dal governo italiano, che hanno fatto infuriare il presidente del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte, che su X ha tuonato: “I raid israeliani hanno colpito anche una chiesa che in questi mesi ha aperto le porte ai bambini di Gaza. Ci sono morti. È rimasto ferito anche padre Romanelli, ignorato in questi mesi quando denunciava: ‘Troppe vite perse, bisogna obbligare Israele a rispettare i diritti umani’. Poco fa il Governo ha bocciato la nostra richiesta di stracciare il memorandum di cooperazione militare fra Italia e Israele. Meloni e i suoi ci risparmino le dichiarazioni e le frasi ipocrite, ora, dopo silenzi, complicità e oltre 60mila palestinesi morti. Indecenti”.

Molto duro anche Angelo Bonelli, deputato di Alleanza Verdi e Sinistra e co-portavoce di Europa Verde, secondo cui: “Anche questa volta Giorgia Meloni si è rivelata la solita ipocrita, complice di Netanyahu. Dopo mesi di silenzio, si accorge ora che i raid israeliani colpiscono civili e perfino la chiesa cattolica di Gaza. Ma continua a non fare nulla: nessuna sanzione, nessuna revoca dell’accordo militare con Israele. Meloni è complice”.

Tel Aviv avvia un’indagine sull’incidente alla chiesa della Sacra Famiglia a Gaza

Davanti alle rimostranze dell’Italia, il ministero degli Esteri israeliano ha espresso “profondo dolore per i danni arrecati alla chiesa della Sacra Famiglia a Gaza City e per le eventuali vittime civili”, aggiungendo che “le Forze di difesa israeliane (Idf) stanno indagando su questo incidente, le cui circostanze non sono ancora chiare”, precisando che “Israele non prende mai di mira chiese o siti religiosi”.

Frasi di circostanza in cui si continua a ribadire la tesi del tragico incidente, a cui però pochi sembrano credere: la chiesa colpita è l’unica della Striscia ed era ben nota all’Idf.

Uno spiraglio di pace inatteso

A fronte di una giornata tanto drammatica, nella Striscia di Gaza torna a riaccendersi – in modo del tutto inaspettato – la speranza di giungere a un cessate il fuoco. Ad anticiparlo al Times of Israel è un alto funzionario di Tel Aviv, secondo cui un accordo tra Israele e Hamas è possibile e viene definito addirittura “probabile”.

Secondo fonti diplomatiche arabe coinvolte nei negoziati, a permettere la svolta sarebbe stata la decisione del primo ministro Benjamin Netanyahu di acconsentire al ritiro dell’Idf dal cosiddetto Corridoio di Morag, che separa Rafah da Khan Younis, e di ridurre la propria presenza anche nella stessa Rafah. Da parte sua, Hamas – secondo quanto riferito all’emittente egiziana Al-Rad – avrebbe dato il suo gradimento per questa proposta, definendola “un punto di partenza per giungere a un accordo complessivo” che ponga fine al conflitto.

Il gruppo si sarebbe detto disposto a rinunciare alla richiesta iniziale di un impegno israeliano formale per un cessate il fuoco permanente, accettando invece una garanzia personale del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, sul rispetto della tregua fino al raggiungimento di un accordo finale.

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Schianto del volo Air India, lo scoop del Wall Street Journal: “Il comandante disattivò il carburante in volo”

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Nuovi elementi emergono nell’inchiesta sul devastante schianto del volo Air India avvenuto lo scorso mese, e potrebbero riscrivere completamente la dinamica di quanto accaduto in cabina di pilotaggio. Secondo un’inchiesta pubblicata dal Wall Street Journal, la causa del guasto ai motori del Boeing 787 Dreamliner sarebbe da ricondurre a una manovra del comandante, Sumeet Sabharwal, che avrebbe disattivato manualmente gli interruttori del flusso di carburante subito dopo il decollo.

L’accusa, se confermata, rappresenterebbe una svolta drammatica in un’indagine finora rimasta avvolta dal riserbo. Al centro della rivelazione, una registrazione contenuta nella scatola nera: dal dialogo tra i due piloti emerge che fu proprio il comandante a portare gli interruttori in posizione “cutoff”, interrompendo così il flusso di carburante verso i motori.

Il primo ufficiale, Clive Kunder, poco più che trentenne, avrebbe reagito con sorpresa e panico, chiedendo spiegazioni al comandante, che invece appariva calmo. I dettagli emergono da fonti vicine alla valutazione preliminare delle prove, visionate da funzionari statunitensi, citate dal quotidiano americano.

Schianto del volo Air India, lo scoop del Wall Street Journal: “Il comandante disattivò il carburante in volo”

Il primo rapporto preliminare delle autorità indiane, pubblicato la scorsa settimana, aveva riassunto lo scambio in cabina ma senza identificare chi dei due piloti avesse pronunciato le frasi. Ora, però, la ricostruzione del Wall Street Journal suggerisce che sia stato proprio Sabharwal, pilota esperto con una lunga carriera, a intervenire sugli interruttori, mentre il primo ufficiale aveva i comandi del velivolo e, secondo esperti del settore, sarebbe stato impegnato nelle operazioni di decollo e quindi con le mani occupate.

Va ricordato che lo stesso rapporto indiano non ha stabilito in modo definitivo le cause dell’incidente, né ha escluso l’ipotesi di problemi tecnici come difetti di progettazione o manutenzione.

Sulla vicenda è intervenuto anche il CEO di Air India, Campbell Wilson, che ha invitato a non trarre “conclusioni affrettate”, sottolineando che l’indagine è ancora in corso e “ben lontana dall’essere conclusa”. Un portavoce della compagnia aerea ha confermato la piena collaborazione con le autorità inquirenti.

Più dura la reazione del Ministero dell’Aviazione Civile indiano, che ha definito l’articolo del Wall Street Journal “unilaterale”, senza fornire ulteriori commenti.

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