Mondo
Sessanta giorni di cessate il fuoco e ostaggi liberi, via libera di Hamas alla tregua
Sessanta giorni di cessate il fuoco, durante i quali verranno liberati gli ostaggi israeliani – sia vivi che deceduti – ancora in mano ad Hamas, e la garanzia fornita dagli Stati Uniti che, in questo periodo, le parti non riprenderanno i combattimenti ma si impegneranno in negoziati seri volti a raggiungere una pace definitiva nella Striscia di Gaza. Dopo oltre venti mesi di brutale guerra, è finalmente arrivata una svolta: il movimento islamista palestinese ha accettato “con lievi modifiche” la proposta di pace mediata da Qatar, Egitto e Stati Uniti, come già aveva fatto all’inizio della settimana il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
La decisione è stata anticipata dalla tv del Qatar Al Araby. Il portale di notizie israeliano Ynet già in mattinata aveva riportato – citando fonti coinvolte nelle trattative – che Hamas si era detto “favorevole” all’accordo, pur ribadendo la necessità di “garanzie relative al cessate il fuoco a Gaza, al ritiro delle truppe israeliane e all’ingresso degli aiuti umanitari nell’enclave”.
I dettagli dell’accordo secondo i media arabi
Secondo quanto riferito dall’emittente egiziana Al-Rad, l’accordo avrà una durata di 60 giorni e sarà sostenuto da garanzie internazionali fornite da Egitto, Qatar e Stati Uniti. Il presidente Donald Trump svolgerà in prima persona un ruolo di supervisione politica nella fase di attuazione del patto. In base al piano, già nel primo giorno della tregua Hamas rilascerà otto ostaggi vivi, mentre l’esercito israeliano (Idf) inizierà un ritiro graduale dal nord della Striscia di Gaza.
Dopo una settimana, saranno restituiti i corpi di altri cinque ostaggi deceduti. Il decimo giorno, Hamas dovrà fornire informazioni e prove mediche sullo stato degli ostaggi ancora detenuti, mentre Israele condividerà dati sui palestinesi arrestati a partire dal 7 ottobre 2023. Nel corso del mese successivo sono previste altre fasi: la consegna di cinque corpi al trentesimo giorno, la liberazione di due ostaggi vivi al cinquantesimo, e infine la restituzione di otto corpi al sessantesimo giorno. Parallelamente al rilascio degli ostaggi, Israele consentirà l’ingresso immediato di aiuti umanitari nella Striscia e proseguirà il ritiro militare verso sud.
Come richiesto da Hamas, durante l’intero periodo di tregua le parti saranno chiamate a condurre negoziati più ampi sulla liberazione degli ultimi ostaggi, la sicurezza a lungo termine della regione, la governance post-Hamas a Gaza e la possibilità di un cessate il fuoco permanente. Ma non è tutto. Secondo l’emittente saudita Asharq, il gruppo terroristico si sarebbe anche detto disposto a porre fine al contrabbando di armi, a cessare la produzione di armamenti nella Striscia e a consegnare quelli esistenti, che verrebbero immagazzinati in un luogo privo di presenza di Hamas.
La mattanza a Gaza
Una giornata di complesse trattative che, come promesso mesi fa da Netanyahu, si sono svolte “sotto le bombe”. Nelle ultime ore, infatti, i bombardamenti sono stati particolarmente cruenti, con l’obiettivo – secondo fonti israeliane – di spingere Hamas ad accettare l’accordo. Il bilancio è drammatico: oltre 27 civili uccisi in tutta la Striscia di Gaza. Cinque di queste vittime, secondo Al Jazeera, sarebbero state colpite dall’Idf mentre si trovavano in attesa di ricevere pacchi di aiuti umanitari presso il centro di distribuzione di Rafah.
Questa ennesima strage di civili è stata duramente condannata dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani. La portavoce Ravina Shamdasani ha dichiarato che, secondo i dati ufficiali, “sono state registrate almeno 613 uccisioni di palestinesi presso i punti di soccorso gestiti dalla Gaza Humanitarian Foundation” per la distribuzione degli aiuti. Un numero spaventoso che, conclude Shamdasani, “potrebbe essere ancora più alto”, poiché i dati si fermano al 27 giugno e “da allora si sono verificati ulteriori incidenti”.
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Zelensky attacca Putin e avverte Trump: “La pace non può aspettare 50 giorni, le sanzioni servono subito”
Con i missili che continuano ad abbattersi su Ucraina e Russia, Volodymyr Zelensky e Vladimir Putin continuano a rimpallarsi la responsabilità per i mancati progressi nei colloqui di pace.
In un’intervista al New York Post, il leader di Kiev ha dichiarato che il presidente russo “non è pronto a un compromesso. Ha fatto perdere tempo a Donald Trump. Vorrei che gli Stati Uniti, il Congresso e il presidente facessero pressione con le sanzioni. Prima si fa, meglio è”.
Il riferimento è al (quasi) ultimatum lanciato dall’inquilino della Casa Bianca all’omologo del Cremlino: se entro “50 giorni” non verrà siglato un accordo di pace, gli Stati Uniti imporranno “sanzioni mai viste” alla Russia. Una linea che Zelensky ha accolto con favore, pur sottolineando come la tempistica sia “troppo lunga”, perché – ha spiegato – “per noi ogni giorno di guerra comporta più morte e distruzione”.
Zelensky attacca Putin e avverte Trump: “La pace non può aspettare 50 giorni, le sanzioni servono subito”
Una posizione condivisa anche dal capo dell’Ufficio presidenziale ucraino, Andriy Yermak, che al britannico The Times ha spiegato come il presidente degli Stati Uniti potrebbe porre fine alla guerra in Ucraina entro la fine del 2025, qualora decidesse di introdurre nuove sanzioni economiche contro i Paesi che acquistano energia e materie prime dalla Russia.
Secondo Yermak, “solo i problemi economici possono davvero mettere sotto pressione il dittatore russo Vladimir Putin” e costringerlo a riconsiderare la prosecuzione del conflitto.
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A Gaza colpita pure la chiesa della Sacra Famiglia: ferito padre Romanelli. Meloni & co protestano, ma Conte li mette in riga: “Dopo mesi di silenzio ci risparmino le dichiarazioni e le frasi ipocrite”
Malgrado le incoraggianti notizie sull’accoglimento, da parte di Hamas, della nuova proposta di pace di Israele, sulla Striscia continuano a piovere le bombe e a verificarsi “incidenti” – come li definisce l’Idf – l’ultimo dei quali ha riguardato la chiesa della Sacra Famiglia a Gaza, colpita da alcuni missili israeliani. Un raid che ha indignato la comunità internazionale e in cui si sono registrati diversi feriti, tra cui padre Gabriel Romanelli – fortunatamente in modo lieve, a una gamba – e altri sei civili, due dei quali verserebbero in “condizioni critiche”.
Un bombardamento scioccante, difficilmente derubricabile a mero incidente, che ha colpito – danneggiandola seriamente – l’unica chiesa cattolica della Striscia, dove da mesi trovavano riparo dai bombardamenti circa 600 persone, sia cristiane che musulmane.
La reazione italiana
Dopo l’attacco, non sono mancate le reazioni dall’Italia. “I raid israeliani su Gaza colpiscono anche la chiesa della Sacra Famiglia. Sono inaccettabili gli attacchi contro la popolazione civile che Israele sta compiendo da mesi. Nessuna azione militare può giustificare un tale atteggiamento”, ha dichiarato la premier Giorgia Meloni. “Gli attacchi dell’esercito israeliano contro la popolazione civile a Gaza non sono più ammissibili. Nel raid è stata colpita anche la chiesa della Sacra Famiglia a Gaza, un atto grave contro un luogo di culto cristiano. Tutta la mia vicinanza a padre Romanelli, rimasto ferito durante il raid. È tempo di fermarsi e trovare la pace”, ha scritto su X il ministro degli Esteri, Antonio Tajani.
Parole, quelle rilasciate dal governo italiano, che hanno fatto infuriare il presidente del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte, che su X ha tuonato: “I raid israeliani hanno colpito anche una chiesa che in questi mesi ha aperto le porte ai bambini di Gaza. Ci sono morti. È rimasto ferito anche padre Romanelli, ignorato in questi mesi quando denunciava: ‘Troppe vite perse, bisogna obbligare Israele a rispettare i diritti umani’. Poco fa il Governo ha bocciato la nostra richiesta di stracciare il memorandum di cooperazione militare fra Italia e Israele. Meloni e i suoi ci risparmino le dichiarazioni e le frasi ipocrite, ora, dopo silenzi, complicità e oltre 60mila palestinesi morti. Indecenti”.
Molto duro anche Angelo Bonelli, deputato di Alleanza Verdi e Sinistra e co-portavoce di Europa Verde, secondo cui: “Anche questa volta Giorgia Meloni si è rivelata la solita ipocrita, complice di Netanyahu. Dopo mesi di silenzio, si accorge ora che i raid israeliani colpiscono civili e perfino la chiesa cattolica di Gaza. Ma continua a non fare nulla: nessuna sanzione, nessuna revoca dell’accordo militare con Israele. Meloni è complice”.
Tel Aviv avvia un’indagine sull’incidente alla chiesa della Sacra Famiglia a Gaza
Davanti alle rimostranze dell’Italia, il ministero degli Esteri israeliano ha espresso “profondo dolore per i danni arrecati alla chiesa della Sacra Famiglia a Gaza City e per le eventuali vittime civili”, aggiungendo che “le Forze di difesa israeliane (Idf) stanno indagando su questo incidente, le cui circostanze non sono ancora chiare”, precisando che “Israele non prende mai di mira chiese o siti religiosi”.
Frasi di circostanza in cui si continua a ribadire la tesi del tragico incidente, a cui però pochi sembrano credere: la chiesa colpita è l’unica della Striscia ed era ben nota all’Idf.
Uno spiraglio di pace inatteso
A fronte di una giornata tanto drammatica, nella Striscia di Gaza torna a riaccendersi – in modo del tutto inaspettato – la speranza di giungere a un cessate il fuoco. Ad anticiparlo al Times of Israel è un alto funzionario di Tel Aviv, secondo cui un accordo tra Israele e Hamas è possibile e viene definito addirittura “probabile”.
Secondo fonti diplomatiche arabe coinvolte nei negoziati, a permettere la svolta sarebbe stata la decisione del primo ministro Benjamin Netanyahu di acconsentire al ritiro dell’Idf dal cosiddetto Corridoio di Morag, che separa Rafah da Khan Younis, e di ridurre la propria presenza anche nella stessa Rafah. Da parte sua, Hamas – secondo quanto riferito all’emittente egiziana Al-Rad – avrebbe dato il suo gradimento per questa proposta, definendola “un punto di partenza per giungere a un accordo complessivo” che ponga fine al conflitto.
Il gruppo si sarebbe detto disposto a rinunciare alla richiesta iniziale di un impegno israeliano formale per un cessate il fuoco permanente, accettando invece una garanzia personale del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, sul rispetto della tregua fino al raggiungimento di un accordo finale.
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Schianto del volo Air India, lo scoop del Wall Street Journal: “Il comandante disattivò il carburante in volo”
Nuovi elementi emergono nell’inchiesta sul devastante schianto del volo Air India avvenuto lo scorso mese, e potrebbero riscrivere completamente la dinamica di quanto accaduto in cabina di pilotaggio. Secondo un’inchiesta pubblicata dal Wall Street Journal, la causa del guasto ai motori del Boeing 787 Dreamliner sarebbe da ricondurre a una manovra del comandante, Sumeet Sabharwal, che avrebbe disattivato manualmente gli interruttori del flusso di carburante subito dopo il decollo.
L’accusa, se confermata, rappresenterebbe una svolta drammatica in un’indagine finora rimasta avvolta dal riserbo. Al centro della rivelazione, una registrazione contenuta nella scatola nera: dal dialogo tra i due piloti emerge che fu proprio il comandante a portare gli interruttori in posizione “cutoff”, interrompendo così il flusso di carburante verso i motori.
Il primo ufficiale, Clive Kunder, poco più che trentenne, avrebbe reagito con sorpresa e panico, chiedendo spiegazioni al comandante, che invece appariva calmo. I dettagli emergono da fonti vicine alla valutazione preliminare delle prove, visionate da funzionari statunitensi, citate dal quotidiano americano.
Schianto del volo Air India, lo scoop del Wall Street Journal: “Il comandante disattivò il carburante in volo”
Il primo rapporto preliminare delle autorità indiane, pubblicato la scorsa settimana, aveva riassunto lo scambio in cabina ma senza identificare chi dei due piloti avesse pronunciato le frasi. Ora, però, la ricostruzione del Wall Street Journal suggerisce che sia stato proprio Sabharwal, pilota esperto con una lunga carriera, a intervenire sugli interruttori, mentre il primo ufficiale aveva i comandi del velivolo e, secondo esperti del settore, sarebbe stato impegnato nelle operazioni di decollo e quindi con le mani occupate.
Va ricordato che lo stesso rapporto indiano non ha stabilito in modo definitivo le cause dell’incidente, né ha escluso l’ipotesi di problemi tecnici come difetti di progettazione o manutenzione.
Sulla vicenda è intervenuto anche il CEO di Air India, Campbell Wilson, che ha invitato a non trarre “conclusioni affrettate”, sottolineando che l’indagine è ancora in corso e “ben lontana dall’essere conclusa”. Un portavoce della compagnia aerea ha confermato la piena collaborazione con le autorità inquirenti.
Più dura la reazione del Ministero dell’Aviazione Civile indiano, che ha definito l’articolo del Wall Street Journal “unilaterale”, senza fornire ulteriori commenti.
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