Mondo
Serbia, quinto giorno di proteste: gli studenti scendono ancora in piazza e chiedono il blocco totale del Paese
Le proteste in Serbia entrano nel quinto giorno consecutivo e assumono una dimensione sempre più ampia e conflittuale. Dopo una notte di nuovi blocchi stradali in tutto il Paese, gli studenti dell’Università di Belgrado hanno lanciato un appello alla mobilitazione generale invitando tutti i cittadini a partecipare a un “blocco totale” del Paese, coinvolgendo anche le città di Novi Sad, Nis, Kragujevac, Valjevo e Cacak.
La scintilla che ha riacceso le tensioni è stato l’arresto di circa 30 studenti nella notte tra mercoledì e giovedì, durante una manifestazione nei pressi della facoltà di Giurisprudenza a Belgrado. Ieri sera, centinaia di persone si sono radunate proprio davanti all’ateneo per chiedere la liberazione degli arrestati e denunciare la repressione del dissenso.
Situazioni di tensione si sono registrate anche a Čačak, dove un gruppo di cittadini si è radunato davanti alla sede locale del Partito Progressista Serbo (SNS). Qui si sono verificati brevi scontri tra manifestanti e sostenitori del partito, dopo che il presidente Aleksandar Vucic ha concesso la grazia a quattro attivisti del SNS condannati per reati legati a precedenti episodi di violenza politica.
Serbia, quinto giorno di proteste: gli studenti scendono ancora in piazza e chiedono il blocco totale del Paese
Il ministero dell’Interno ha definito i blocchi stradali “atti illegali” e ha annunciato che la polizia “adotterà tutte le misure necessarie per garantire l’ordine pubblico e la pace.” A Novi Sad, secondo quanto riferito dall’emittente “N1”, si sono già verificati nuovi arresti, mentre in piazza della Repubblica a Belgrado è massiccia la presenza delle forze dell’ordine, che hanno avviato la rimozione dei blocchi eretti durante la notte.
In un discorso diffuso su Instagram, il presidente Vucic ha lanciato un appello drammatico: “Purtroppo, coloro a cui non piace la Serbia, sia all’estero che all’interno, hanno deciso di rendere la vita difficile a tutti voi. Chiedo loro di comprendere che si tratta di gravi atti criminali, contrari alla Legge sulla sicurezza stradale e alle norme costituzionali sulla libertà di movimento.” Vucic ha invitato alla calma e alla responsabilità, sottolineando il rischio che le proteste degenerino in instabilità generalizzata.
Intanto, gli studenti mantengono il punto, e il fronte della protesta sembra allargarsi di ora in ora. Con l’inizio del blocco totale annunciato per oggi, la Serbia si prepara a una giornata ad altissima tensione.
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Mondo
Gli Stati Uniti blindano le frontiere: il Pentagono estende le zone militarizzate al confine con il Messico
Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ha annunciato una nuova e significativa espansione delle zone militarizzate lungo il confine con il Messico. La misura, che rientra in un più ampio piano di controllo dei flussi migratori irregolari, porterà le aree sottoposte a vigilanza militare a coprire quasi un terzo dell’intera frontiera tra i due Paesi.
La novità principale riguarda l’istituzione di una nuova “zona di sicurezza” nella Rio Grande Valley, in Texas: circa 400 chilometri di territorio che si aggiungono ai 370 chilometri già sorvegliati dalle forze armate tra Fort Hancock, El Paso e i ranch del New Mexico. Come riportato dall’agenzia Associated Press, un’ulteriore espansione è prevista nei pressi di Yuma, in Arizona, a ridosso di una delle aree più battute dai flussi migratori degli ultimi anni.
Al momento sono oltre 7.600 i soldati impegnati in queste operazioni, con il compito non solo di pattugliare i confini, ma anche – fatto che suscita ampie polemiche – di effettuare arresti nei confronti di migranti entrati irregolarmente nel Paese. Una funzione che solleva forti dubbi giuridici, in quanto si avvicina a compiti di polizia civile, storicamente riservati ad agenzie federali come la Border Patrol.
Gli Stati Uniti blindano le frontiere: il Pentagono estende le zone militarizzate al confine con il Messico
La possibilità di impiegare l’esercito in queste attività è garantita dallo stato di emergenza nazionale dichiarato nel 2017 dall’allora presidente Donald Trump, e mai revocato. Tale emergenza consente al Pentagono di aggirare il Posse Comitatus Act, la legge federale che vieta l’uso delle forze armate in operazioni di ordine pubblico all’interno del territorio nazionale.
Ma la decisione non è priva di conseguenze. Le principali organizzazioni per i diritti umani, come l’American Civil Liberties Union (ACLU), hanno duramente criticato l’espansione delle zone militarizzate, denunciando violazioni sistematiche dei diritti dei migranti, arresti sommari e un clima di crescente militarizzazione nelle comunità di confine. Preoccupazioni arrivano anche dal fronte ambientalista: diverse associazioni hanno segnalato restrizioni all’accesso a terre pubbliche, interruzione dei corridoi ecologici e impatti negativi su flora e fauna locali.
Il governo Biden, pur non avendo formalmente revocato lo stato di emergenza, ha più volte dichiarato di voler gestire la questione migratoria con un approccio “più umano e sistemico”. Tuttavia, la pressione politica interna – specialmente in vista delle presidenziali del 2026 – e l’aumento dei flussi dal Centro e Sud America sembrano aver spinto l’amministrazione a mantenere, e anzi rafforzare, la linea dura al confine meridionale.
Resta da capire quali saranno gli effetti a lungo termine di questa militarizzazione estesa, tanto sulle comunità locali quanto sull’immagine internazionale degli Stati Uniti.
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