Mondo
Perché i cipollotti sono diventati il simbolo della protesta contro il governo sudcoreano
La visita del presidente Yoon in un supermercato avrebbe dovuto conquistare il sostegno degli elettori, ma ha finito invece per alimentare l’esatto contrario: il sospetto che il leader sia staccato dalla vita reale
Un umile ortaggio può affossare la figura politica di un presidente in carica? È la domanda che circola nell’entourage del leader sudcoreano Yoon Suk Yeol, che si appresta ad affrontare quello che gli analisti definiscono un referendum politico sul suo mandato. Questo perché il 10 aprile i sudcoreani saranno chiamati a votare e a rinnovare il Parlamento unicamerale noto come Assemblea nazionale. I temi principali della campagna elettorale non sono stati la minaccia nordcoreana di Kim Jong Un e la situazione geopolitica internazionale, ma la corruzione, l’inflazione e il problema dell’invecchiamento demografico in Corea del Sud. Fattori che hanno animato lo scontro politico a colpa di cipollotti verdi tra il presidente conservatore Yoon Suk-yeol e il capo del principale partito d’opposizione, Lee Jae-myung. Nelle ultime settimane, i vegetali sono passati da un semplice alimento base della cucina coreana a un potente simbolo della rabbia degli elettori contro il governo del presidente Yoon, che non è riuscito a frenare l’impennata dei prezzi dei prodotti alimentari.
Il cipollotto, protagonista politico in Corea del Sud
L’umile vegetale ha fatto la sua apparizione politica qualche settimana fa, quando il leader conservatore sudcoreano ha fatto un giro nei supermercati di Seul, per mostrarsi vicino alle istanze e problematiche del popolo. Il tutto a favore di telecamera. Davanti ai giornalisti, Yoon ha afferrato un mazzo di cipollotti verdi osservando come 875 won (59 centesimi di euro) sia un prezzo più che ragionevole per il prodotto. Quello che Yoon non ha evidenziato davanti ai cronisti è che l’ortaggio più usato nella cucina sudcoreana abbia conosciuto un’impennata negli ultimi mesi, oscillando tra i 3 e i 4 mila won al mazzo (2-3 euro). Il prezzo che Yoon considera ragionevole è quindi il risultato di un sussidio speciale e temporaneo concesso dal governo proprio in occasione della campagna elettorale. Da qui, la rabbia dei cittadini, che al banco frutta vedono una mela costare il 90 per cento in più rispetto al mese precedente.
Sfruttando la scivolata del Yoon, i candidati dell’opposizione hanno utilizzato le cipolle verdi a gambo lungo a supporto dei loro discorsi elettorali per screditare il vano tentativo del presidente Yoon di porsi alla stregua dei cittadini comuni della seconda potenza economica dell’Asia e ricordare quindi ai sudcoreani che il presidente è disconnesso dalla realtà quotidiana.
Come e per cosa si vota?
Così, il 10 aprile, accanto alle schede e alle urne elettorali, potrebbero comparire anche loro, i cipollotti, nonostante la Commissione elettorale nazionale abbia bandito l’ingresso del prodotto nella cabina elettorale, per evitare di influenzare i votanti e turbare l’ambiente di pacifica riflessione.
A due anni dal voto presidenziale, Yoon spera di ottenere la maggioranza in parlamento del suo Partito del potere popolare (PPP), strappando la gran parte dei seggi ora nelle mani al Partito democratico di Corea (Dpk). Un’ulteriore conferma del partito di opposizione metterebbe in difficoltà il leader sudcoreano, che si troverebbe come un’anatra zoppa per i restanti tre anni del suo mandato.
In palio ci sono 300 seggi dell’Assemblea nazionale, espressi in due voti dai cittadini: 253 deputati saranno eletti nei collegi uninominali da una pluralità semplice di elettori, mentre i restanti 47 deputati saranno eletti da liste chiuse con metodo proporzionale. Si viene a costituire così un sistema maggioritario, dove per il momento, le opposizioni sembrano avere la meglio.
Europa
Viktor Orbán: la deriva autoritaria dell’Ungheria e la minaccia all’unità europea
Sotto la crescente pressione per mantenere il potere, il Primo Ministro ungherese Viktor Orbán rispecchia sempre più le tattiche di Vladimir Putin: consolidamento del controllo attraverso la propaganda, indebolimento delle istituzioni democratiche e creazione di nemici sia interni che esterni.
Di fronte a un calo di consensi – i sondaggi recenti mostrano il partito d’opposizione “TISZA” in vantaggio rispetto al suo partito Fidesz – Orbán ha avviato una stretta contro il dissenso. I partiti d’opposizione vengono dipinti come minacce alla sicurezza nazionale, mentre la società civile è sottoposta a pressioni crescenti. Una nuova legge, la “Legge sulla Trasparenza della Vita Pubblica”, prende di mira le ONG – in particolare quelle con finanziamenti esteri – con l’obiettivo di mettere a tacere le voci indipendenti sotto il pretesto dell’interesse nazionale.
Il recente arresto di due ungheresi etnici in Ucraina con l’accusa di spionaggio è stato immediatamente strumentalizzato dalla macchina propagandistica di Orbán. Senza prove chiare, ha usato l’incidente per alimentare il sentimento nazionalista e mobilitare la sua base, dipingendo l’Ungheria come una nazione assediata.
Allo stesso tempo, la posizione geopolitica di Orbán diventa sempre più preoccupante. La sua retorica irredentista di lunga data nei confronti della regione ucraina della Transcarpazia, insieme alle richieste di diritti speciali per la minoranza ungherese, mina la sovranità ucraina. Le notizie sull’attività dell’intelligence ungherese nella regione rafforzano ulteriormente i timori di destabilizzazione.
La sua aperta sfida all’Unione Europea – bloccando decisioni chiave, indebolendo le sanzioni contro la Russia e abbracciando la narrazione del Cremlino – ha trasformato l’Ungheria in un “cavallo di Troia” all’interno dell’Unione. Nonostante tragga vantaggio dai fondi europei, il suo regime erode attivamente i valori dell’UE, lo stato di diritto e la coesione regionale.
Il suo obiettivo è chiaro: trasformare l’Ungheria in una “democrazia controllata” simile a quella della Russia di Putin, ma all’interno del quadro istituzionale dell’Unione. Se Bruxelles continua a esitare, rischia di legittimare un’autocrazia nel cuore dell’Europa. Le azioni di Orbán richiedono una risposta ferma e coordinata – a partire dalle misure previste dall’articolo 7 – per difendere i principi europei e prevenire ulteriori sabotaggi interni.
Mondo
Cpi, il procuratore capo Khan si autosospende: è indagato per abusi sessuali
Si è autosospeso il procuratore della Corte penale internazionale (Cpi), Karim Khan: da novembre è indagato per presunte molestie sessuali. Il suo ufficio ha fatto sapere che il procuratore ha annunciato la decisione “di prendersi un congedo in attesa della conclusione del procedimento” che viene portato avanti dagli inquirenti delle Nazioni Unite.
Lo scandalo risale a circa sei mesi fa: l’organismo di controllo interno della Cpi comunicò di aver chiesto un’indagine esterna sulle accuse di “presunta cattiva condotta” del procuratore capo. Non vennero però forniti altri dettagli, ma secondo alcuni media Khan sarebbe stato accusato per comportamenti sessuali inappropriati nei confronti di un membro del suo staff. Le accuse sono sempre state rigettate da Khan.
In questi mesi il procuratore generale è stato incalzato da diverse Ong e anche da alcuni membri della Corte, che gli hanno chiesto di ritirarsi o sospendersi. La scorsa settimana avrebbe incontrato gli investigatori delle Nazioni Unite in una udienza forse finale dell’indagine e poi avrebbe deciso di ricorrere al congedo.
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Mondo
Mosca e Kiev tornano a parlarsi, ma senza Putin e Zelensky i negoziati in Turchia sono destinati al fallimento
Sono iniziati questa mattina e stanno proseguendo a oltranza i negoziati tra Mosca e Kiev a Istanbul, in Turchia. L’incontro tra le delegazioni dei due Paesi è cominciato verso le 12, con un’ora di ritardo rispetto alla tabella di marcia annunciata in mattinata, e non si è ancora concluso, anche se, poco alla volta, stanno emergendo alcune indiscrezioni. Come facilmente intuibile dall’assenza di Vladimir Putin e di Volodymyr Zelensky, si tratta di un primo incontro non destinato a concludersi con un accordo. Questo, però, non significa che si tratti di un vertice inutile, poiché ha permesso ai due Paesi di tornare a sedersi al tavolo delle trattative dopo la brusca interruzione dei negoziati avvenuta nel 2022.
Mosca e Kiev tornano a parlarsi, ma senza Putin e Zelensky i negoziati in Turchia sono destinati al fallimento
Stando a quanto riferito dal capo dell’ufficio del presidente ucraino, Andriy Yermak, la delegazione di Kiev ha le idee chiare su ciò che intende ottenere da questa trattativa.
La priorità dell’Ucraina, spiega il fedelissimo di Zelensky, è raggiungere un “cessate il fuoco incondizionato”, così da avviare “trattative serie” per porre fine alla guerra.
Il problema, secondo l’amministrazione di Kiev, è che la Russia non sembra affatto disposta ad accettare questa condizione, come dimostra il fatto che “Putin ha inviato a Istanbul funzionari che non hanno alcun potere decisionale”.
Poi, nell’evidente tentativo di fare pressioni su Mosca, ha aggiunto che “se al contrario hanno una qualche autorità, l’unico modo per dimostrarlo è accettare di compiere passi reali, in particolare un cessate il fuoco”. Ma non è tutto. Secondo quanto riportato da France Presse, l’Ucraina in queste ore starebbe insistendo con forza affinché venga preparato “un incontro diretto tra il presidente Volodymyr Zelensky e il suo omologo russo Vladimir Putin”.
Parole a cui ha risposto a distanza, durante una pausa nei colloqui, Vladimir Medinsky, capo della delegazione russa, secondo cui “la Russia è pronta a riprendere il processo di negoziazione” ed è aperta “a possibili compromessi”. Quali siano, però, resta un mistero. L’unica certezza, per ora, è che — secondo quanto trapela — il Cremlino avrebbe preso tempo, giudicando “prematuro” discutere di un possibile vertice tra i due leader.
Le reazioni al vertice in Turchia
Mentre la diplomazia muove i primi passi, la Nato e l’Ue criticano duramente la decisione del presidente russo di non partecipare agli incontri in Turchia.
Secondo quanto dichiarato da Ursula von der Leyen, “Putin prima ha chiesto un cessate il fuoco attorno all’anniversario del 9 maggio, ma non lo ha mai rispettato. Poi l’Ucraina ha chiesto un cessate il fuoco di 30 giorni, pieno e incondizionato, che Putin ha respinto, e infine ha offerto un incontro in Turchia. Ma Putin non si è mai presentato. Questo dimostra che Putin non vuole la pace”.
Dura anche la reazione del segretario generale della Nato, Mark Rutte, secondo cui “Putin deve essere serio” nei confronti dei negoziati di pace, perché “è stato un errore inviare una delegazione di basso livello”.
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