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Perché è improbabile che Israele attacchi l’Iran prima del 29 aprile

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Da quando Teheran ha attaccato con oltre 300 droni e missili, Israele ha valutato come e quando rispondere. Un elemento che potrebbe influenzare le mosse è la Pasqua ebraica. Vediamo perché

Dopo l’attacco a Israele da parte dell’Iran la domanda è una: quando arriverà la risposta? Secondo una fonte Usa all’emittente Abc, ripresa dai media israeliani Israele non attaccherà l’Iran prima della Pasqua ebraica. Significa che la risposta militare contro l’Iran potrebbe arrivare alla fine di aprile.

Il calendario di quest’anno del “Pesach”, la Pasqua ebraica appunto, prevede che cominci la sera del 22 aprile per concludersi il 30 del mese. L’attacco potrebbe essere quindi sferrato nella notte del 29, con lancio di missili che arriverebbero nelle prime ore del 30 aprile sul suolo iraniano. L’ora “x” potrebbe però scoccare direttamente il 30 aprile. Si tratta, ovviamente, di valutazioni in continua evoluzione perché tutto dipende dallo sviluppo della situazione sul terreno. I comandanti dei Pasdaran e l’altra leadership iraniana sono ancora in una situazione di allarme elevato, con alcuni nascosti in case sicure e strutture sotterranee.

Che la risposta ci sarà sembra certo. L’incognita quindi sono tempi e modi. Da quando Teheran ha attaccato con oltre 300 droni e missili, Israele ha valutato come e quando rispondere nel corso di riunioni del gabinetto di guerra domenica, lunedì e martedì. Presenti il primo ministro Benjamin Netanyahu, l’ex capo di stato maggiore Benny Gantz e il ministro della Difesa Yoav Gallant. Secondo Abc News il gabinetto di guerra israeliano ha valutato una serie di risposte da quelle militari al potenziale attacco informatico.

Il timore resta quello di una guerra Iran-Israele che renderebbe ancora più complessa la situazione in Medio Oriente. “Moderazione” e “nessuna escalation” chiede a Israele il capo della diplomazia Ue, Josep Borrell: “Non possiamo rispondere sempre con un gradino più in alto. Siamo sull’orlo di una guerra regionale le cui onde d’urto arriveranno nel resto del mondo, in particolare l’Europa”.

Le posizioni dei Paesi occidentali non sono però del tutto compatte. Secondo il quotidiano del Qatar al Araby al Jadeed che cita fonti egiziane, gli Usa hanno dato il via libera all’offensiva israeliana su Rafah, in cambio di una rinuncia del governo israeliano a una ritorsione contro l’Iran. “Se ci fosse un attacco a Rafah, dove ci sono in strada 1,7 milioni di persone – le parole di tono opposto di Borrel – ci sarebbe una vera catastrofe umanitaria. Quindi l’appello a Israele è stato molto chiaro da parte dello stesso presidente Biden e da parte di tutti i leader europei, a non attaccare Rafah. Abbiamo dimostrato che stiamo difendendo Israele non solo a parole perché i missili e i droni iraniani sono stati abbattuti grazie alle capacità militari degli Stati Uniti, della Francia e della Gran Bretagna. Allo stesso tempo dobbiamo tenere a mente che va risolto il problema tra Israele e palestinesi” tenendo conto anche dei “diritti” del popolo palestinese.

“Il G7 deve reagire all’attacco senza precedenti dell’Iran contro Israele”, sottolinea il ministro degli Esteri tedesco, Annalena Baerbock, indicando che misure sono allo studio durante la ministeriale in corso a Capri. “Stiamo discutendo di misure aggiuntive qui al G7 perché ovviamente ci deve essere una risposta a questo incidente senza precedenti”, aggiunge Baerbock, evidenziando tuttavia la necessità di evitare l’escalation.

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Mondo

Da Israele arriva il via libera al ritorno degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Ma Bibi non ha pietà e prepara l’assalto finale ad Hamas

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Dopo un martellante pressing internazionale su Israele, Benjamin Netanyahu si è rassegnato e ha dato il via libera alla ripresa delle consegne di aiuti umanitari nella Striscia di Gaza.

Peccato che non ci sia stato neanche il tempo per esultare: poche ore dopo l’annuncio sono arrivate dichiarazioni di fuoco da parte del governo israeliano — che lasciano presagire come il peggio debba ancora arrivare — e si è verificato anche un “incidente” con l’aviazione israeliana che, secondo quanto riportato dall’Ong britannica Medical Aid for Palestinians, avrebbe colpito e “ridotto in cenere” dei magazzini contenenti medicinali destinati all’enclave palestinese.

Da Israele arriva il via libera al ritorno degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Ma Bibi non ha pietà e prepara l’assalto finale ad Hamas

Il primo ministro israeliano, annunciando la ripresa delle forniture umanitarie, ha dichiarato: “Per completare la vittoria, sconfiggere Hamas e liberare i nostri ostaggi, non dobbiamo raggiungere uno stato di fame nella Striscia di Gaza: sia dal punto di vista pratico che politico, altrimenti i Paesi alleati non ci sosterranno”.

Del resto, senza cibo e medicinali “ci stiamo rapidamente avvicinando alla linea rossa”, ossia la carestia, che potrebbe portare a “una situazione in cui potremmo perdere il controllo, e allora tutto crollerebbe”.

Ma che quella di Bibi non sia un’apertura alla pace lo ha chiarito lui stesso, affermando che, con l’operazione “Carri di Gedeone”, di fatto già iniziata da qualche giorno, “prenderemo il controllo di tutto il territorio della Striscia di Gaza” e così “sconfiggeremo definitivamente Hamas e recupereremo i nostri ostaggi”.

Parole a cui ha fatto eco il ministro delle Finanze israeliano e leader dell’estrema destra Bezalel Smotrich, secondo cui l’offensiva segue un “approccio completamente diverso da qualsiasi cosa vista in passato. Niente più incursioni o operazioni lampo: ora conquistiamo, purifichiamo e restiamo. Finché Hamas non sarà distrutta”.

Negoziati in stallo

Davanti a queste affermazioni, sembra ormai tramontata la speranza di negoziati di pace che possano porre fine a questa brutale guerra. Il leader di Hamas, Sami Abu Zuhri, citato dal quotidiano Al-Quds, ha smentito le indiscrezioni dei giorni scorsi secondo cui il movimento palestinese avrebbe accettato il rilascio di dieci ostaggi in cambio della liberazione di centinaia di prigionieri palestinesi e di una tregua di due mesi.

“Israele sta cercando di confondere il quadro con notizie false, al fine di fare pressione sulla resistenza”, ha dichiarato Abu Zuhri, sostenendo che se l’accordo non c’è stato è perché Netanyahu non lo vuole.

Il capo di Hamas ha però ribadito “la disponibilità del movimento a rilasciare tutti gli ostaggi, a condizione che l’occupazione finisca e Israele si impegni in un cessate il fuoco internazionale”. Una proposta su cui, come già accaduto in passato, Netanyahu non ha neanche commentato.

Ma a parlare sono i fatti, che mostrano una nuova escalation nella regione mediorientale. Il gabinetto di sicurezza israeliano ha infatti approvato il piano del ministro della Difesa, Israel Katz, per la costruzione di una barriera di sicurezza ad alta tecnologia lungo il confine con la Giordania, e per rafforzare la presenza israeliana nella Valle del Giordano.

Ma non è tutto. Nelle ultime 24 ore l’esercito israeliano (IDF) ha colpito duramente Gaza City, causando almeno 23 morti, e sta letteralmente martellando la città di Khan Younis, nel sud della Striscia. Proprio in quest’ultima città la situazione sta peggiorando di ora in ora: l’IDF ha annunciato una maxi operazione imminente, per la quale ha ordinato ai civili di evacuare al più presto Khan Younis, altrimenti non potrà garantirne l’incolumità.

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Europa

Viktor Orbán: la deriva autoritaria dell’Ungheria e la minaccia all’unità europea

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Viktor Orbán la deriva autoritaria dell'Ungheria e la minaccia all'unità europea

Sotto la crescente pressione per mantenere il potere, il Primo Ministro ungherese Viktor Orbán rispecchia sempre più le tattiche di Vladimir Putin: consolidamento del controllo attraverso la propaganda, indebolimento delle istituzioni democratiche e creazione di nemici sia interni che esterni.

Di fronte a un calo di consensi – i sondaggi recenti mostrano il partito d’opposizione “TISZA” in vantaggio rispetto al suo partito Fidesz – Orbán ha avviato una stretta contro il dissenso. I partiti d’opposizione vengono dipinti come minacce alla sicurezza nazionale, mentre la società civile è sottoposta a pressioni crescenti. Una nuova legge, la “Legge sulla Trasparenza della Vita Pubblica”, prende di mira le ONG – in particolare quelle con finanziamenti esteri – con l’obiettivo di mettere a tacere le voci indipendenti sotto il pretesto dell’interesse nazionale.

Il recente arresto di due ungheresi etnici in Ucraina con l’accusa di spionaggio è stato immediatamente strumentalizzato dalla macchina propagandistica di Orbán. Senza prove chiare, ha usato l’incidente per alimentare il sentimento nazionalista e mobilitare la sua base, dipingendo l’Ungheria come una nazione assediata.

Allo stesso tempo, la posizione geopolitica di Orbán diventa sempre più preoccupante. La sua retorica irredentista di lunga data nei confronti della regione ucraina della Transcarpazia, insieme alle richieste di diritti speciali per la minoranza ungherese, mina la sovranità ucraina. Le notizie sull’attività dell’intelligence ungherese nella regione rafforzano ulteriormente i timori di destabilizzazione.

La sua aperta sfida all’Unione Europea – bloccando decisioni chiave, indebolendo le sanzioni contro la Russia e abbracciando la narrazione del Cremlino – ha trasformato l’Ungheria in un “cavallo di Troia” all’interno dell’Unione. Nonostante tragga vantaggio dai fondi europei, il suo regime erode attivamente i valori dell’UE, lo stato di diritto e la coesione regionale.

Il suo obiettivo è chiaro: trasformare l’Ungheria in una “democrazia controllata” simile a quella della Russia di Putin, ma all’interno del quadro istituzionale dell’Unione. Se Bruxelles continua a esitare, rischia di legittimare un’autocrazia nel cuore dell’Europa. Le azioni di Orbán richiedono una risposta ferma e coordinata – a partire dalle misure previste dall’articolo 7 – per difendere i principi europei e prevenire ulteriori sabotaggi interni.

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Mondo

Cpi, il procuratore capo Khan si autosospende: è indagato per abusi sessuali

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Si è autosospeso il procuratore della Corte penale internazionale (Cpi), Karim Khan: da novembre è indagato per presunte molestie sessuali. Il suo ufficio ha fatto sapere che il procuratore ha annunciato la decisione “di prendersi un congedo in attesa della conclusione del procedimento” che viene portato avanti dagli inquirenti delle Nazioni Unite.

Lo scandalo risale a circa sei mesi fa: l’organismo di controllo interno della Cpi comunicò di aver chiesto un’indagine esterna sulle accuse di “presunta cattiva condotta” del procuratore capo. Non vennero però forniti altri dettagli, ma secondo alcuni media Khan sarebbe stato accusato per comportamenti sessuali inappropriati nei confronti di un membro del suo staff. Le accuse sono sempre state rigettate da Khan.

In questi mesi il procuratore generale è stato incalzato da diverse Ong e anche da alcuni membri della Corte, che gli hanno chiesto di ritirarsi o sospendersi. La scorsa settimana avrebbe incontrato gli investigatori delle Nazioni Unite in una udienza forse finale dell’indagine e poi avrebbe deciso di ricorrere al congedo.

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