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Nel mondo ci sono 122 milioni di sfollati da guerre, persecuzioni e violenze. Le Nazioni Unite lanciano l’allarme per l’instabilità globale

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Sono oltre 122 milioni le persone costrette a fuggire da guerre, persecuzioni e violenze nel mondo. A certificarlo è l’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, che oggi ha pubblicato il suo rapporto annuale Global Trends. Il dato – aggiornato ad aprile 2025 – rappresenta l’ennesimo record in una tendenza ininterrotta da dieci anni.

“Alla fine di aprile 2025 c’erano 122,1 milioni di persone costrette a fuggire dalle loro case, contro i 120 milioni dello scorso anno”, si legge nel rapporto. A pesare maggiormente, come evidenzia l’Onu, sono i conflitti in Sudan, Myanmar e Ucraina, ma anche l’incapacità della politica internazionale di fermare i combattimenti.

Secondo l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi, “viviamo in un periodo di intensa volatilità nelle relazioni internazionali, con la guerra moderna che crea un panorama fragile e straziante, segnato da un’acuta sofferenza umana”. Grandi ha ribadito l’urgenza di “raddoppiare gli sforzi diplomatici per raggiungere la pace” e garantire soluzioni durature per chi è costretto a fuggire.

Sudan, la crisi peggiore al mondo

Tra i numeri più allarmanti spiccano quelli del Sudan, che con 14,3 milioni di rifugiati e sfollati interni supera la Siria (13,5 milioni) e diventa la maggiore crisi umanitaria al mondo. Seguono l’Afghanistan con 10,3 milioni e l’Ucraina con 8,8 milioni.

In totale, 73,5 milioni di persone sono oggi sfollate all’interno del proprio Paese, con un aumento di 6,3 milioni in un solo anno. I rifugiati internazionali – coloro che hanno attraversato un confine – sono invece 42,7 milioni.

I Paesi poveri sopportano il peso maggiore

Il rapporto sfata anche alcuni luoghi comuni: il 67% dei rifugiati rimane nei Paesi confinanti, e il 73% è ospitato da nazioni a basso e medio reddito. Un dato impressionante se si considera che i Paesi a basso reddito rappresentano appena il 9% della popolazione mondiale e lo 0,6% del PIL globale, ma accolgono il 19% dei rifugiati.

Tra i Paesi più impegnati ci sono Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Sudan e Uganda, che pur avendo risorse limitate offrono rifugio a milioni di persone in fuga.

Inoltre, il 60% delle persone costrette a fuggire non lascia mai il proprio Paese, rimanendo sfollato entro i confini nazionali, spesso in condizioni critiche.

Fondi umanitari fermi al 2015

Se i numeri crescono, i finanziamenti umanitari non seguono lo stesso ritmo. Secondo l’Unhcr, i fondi disponibili nel 2025 sono pari a quelli del 2015, mentre le emergenze si sono moltiplicate. “Una situazione insostenibile – avverte l’agenzia – che lascia le donne senza protezione, i bambini senza scuole, intere comunità senza acqua e cibo”.

Piccoli segnali di speranza

Nonostante il quadro drammatico, nel 2024 si è registrato un dato positivo: 9,8 milioni di persone sono tornate a casa, tra cui 1,6 milioni di rifugiati (il numero più alto degli ultimi vent’anni) e 8,2 milioni di sfollati interni. Tuttavia, molti di questi ritorni sono avvenuti in condizioni di forte instabilità politica e sociale, come accaduto in Afghanistan, dove centinaia di migliaia di persone sono rientrate in condizioni disperate.

“Abbiamo visto barlumi di speranza – ha dichiarato Filippo Grandi – quasi due milioni di siriani sono riusciti a tornare a casa. Ma ora serve un aiuto concreto per permettere loro di ricostruirsi una vita”.

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Mondo

In Libia si avvicina la guerra civile: il movimento di protesta accusa il governo di “retorica incendiaria”

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La situazione politica in Libia si fa sempre più tesa. A lanciare l’allarme è il Movimento di protesta di Tripoli e della Regione Occidentale, che ha diffuso una dura dichiarazione contro il premier del Governo di Unità Nazionale, Abdul Hamid Dabaiba, accusandolo apertamente di usare una “retorica incendiaria” e di alimentare la tensione in un Paese già profondamente lacerato da anni di instabilità.

Nel mirino sono finite le ultime dichiarazioni pubbliche del premier, giudicate “irresponsabili” e cariche di un pericoloso sottotesto. In particolare, il Movimento ha denunciato l’insinuazione secondo cui “Tripoli è grande solo per lui” e l’affermazione che “un conflitto o una guerra sono inevitabili”. Frasi che, secondo la nota, rappresentano una minaccia diretta alla sicurezza della capitale e dei suoi abitanti, oltre a rivelare una “preoccupante deriva autoritaria” da parte dell’esecutivo.

In Libia si avvicina la guerra civile: il movimento di protesta accusa il governo di “retorica incendiaria”

Il comunicato diffuso dal Movimento sottolinea come simili uscite pubbliche siano in netto contrasto con la volontà espressa da ampie fasce della popolazione di superare le divisioni e lavorare alla costruzione di uno stato civile e democratico. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato, secondo il Movimento, l’intervento delle forze di sicurezza contro un gruppo di tifosi sportivi, nella serata di ieri, culminato in scontri con vittime e feriti.

Per i manifestanti, questo episodio è la prova tangibile di quanto il confronto politico stia degenerando e rischi di sfociare in una nuova stagione di violenza urbana. “Tripoli non sarà il campo di battaglia di nessuno – si legge nella dichiarazione – e chi proverà a trascinarla nel caos troverà un muro di pace costruito dalla sua gente”.

Un appello alla pace e alla resistenza civile

Nonostante le parole forti, il tono del Movimento si mantiene ancorato a una logica non violenta: nessun appello allo scontro fisico, ma una ferma volontà di difendere la città con gli strumenti della protesta pacifica. La popolazione della capitale, si legge ancora nella nota, “resterà unita” e “resisterà a chi vede nel potere un fine e non un mezzo”.

Il messaggio finale è chiaro: il rifiuto della retorica sediziosa e la richiesta di un ritorno alla politica del dialogo, allontanando ogni deriva personalistica. “Le parole del premier – conclude la dichiarazione – non sono degne di chi dovrebbe guidare un processo di riconciliazione nazionale. Provengono da chi ha paura del cambiamento”.

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Guerra Ucraina

Maturità, le tracce che manderebbero in crisi la sinistra: l’Iran e la dittatura dimenticata, il cortocircuito Ucraina e il 7 ottobre minimizzato

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Gli esami di maturità che i nostri ragazzi affrontano in questi giorni sono impegnativi. Li mettono davanti a quesiti, a tracce, a temi – parlo degli scritti – che aprono loro la mente. Ponendo criticità, instillando dubbi, spingendo a rimettere in discussione e rianalizzare tutto il sapere acquisito nei cinque anni di studio precedenti. Per fortuna spesso gli adolescenti sanno dare un senso anche alle cose complesse. E poi i titoli su cui esercitarsi erano in buona parte, come sempre, sulla letteratura. Ipotizziamo, per iperbole, che le tracce di attualità fossero state tutte legate alle sfide – importanti, impellenti, urgenti – della geopolitica. E che a doverne scrivere, trattandole con la profondità necessaria, fossero stati chiamati i parlamentari e dirigenti della politica. E quelli del centrosinistra in particolare. Cosa ne sarebbe venuto fuori?

Le tracce che manderebbero in crisi la sinistra

Traccia numero uno: “Israele e Palestina, due popoli, due Stati. Con quale forma di governo? Auspicabilmente, due Stati democratici. Posto che la Palestina è presidiata da decine di migliaia di miliziani fondamentalisti, divisi tra Hamas, Hezbollah e Jihad Islamica, che minacciano, affamano e taglieggiano la popolazione civile, impedendo libere elezioni, dica il candidato con quale criterio sarebbe realizzabile l’auspicato assetto statuale della Palestina senza averne prima creato le condizioni indispensabili, ripulendo la regione dai terroristi”.

L’Iran e la dittatura dimenticata

Complicata? Si può allora optare per la traccia numero due, più semplice e decisamente diretta. “Le manifestazioni per i diritti umani in Iran hanno caratterizzato per anni l’attività della sinistra in tutta Europa. Posto che l’Iran attua da sola il 60% delle condanne a morte comminate ogni anno nel mondo e che in Iran migliaia di donne vengono fatte stuprare e uccise per non aver coperto integralmente il capo con il velo, e che migliaia di corpi di omosessuali vengono lasciati appesi per giorno dopo essere stati impiccati, dica il candidato come sia possibile sostenere che in nome del diritto internazionale non deve essere messa in discussione la dittatura teocratica in Iran, oggetto delle attività di Israele”.

C’è poi la traccia di storia contemporanea: “Il 7 ottobre ha segnato uno spartiacque: crimini contro l’umanità mai visti prima sono stati compiuti contro migliaia di civili disarmati, uccidendo bambini e stuprando donne nei kibbutz pacifisti. Il candidato esponga le ragioni che hanno portato a minimizzare quando non a negare quei crimini, accusando Israele di aver reagito ingiustamente”.

Il cortocircuito Ucraina

In caso di difficoltà, si può optare per il quarto quesito, sull’invasione russa dell’Ucraina. “Il diritto alla difesa dell’integrità ucraina è stato votato dal Parlamento europeo. Spieghi il candidato come sia possibile dare seguito a questo intendimento se poi si vota contro alla possibilità per le forze armate ucraine di colpire le installazioni lanciamissili che dal territorio russo colpiscono quel paese”.

Siamo certi, purtroppo, che nessun esponente dell’attuale centrosinistra riuscirebbe a superare la prova di maturità che ci impone la storia. E la bocciatura, fuori di metafora, arriva: gli immaturi non possono ambire a governare.

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Mondo

Thailandia, esplode la protesta contro la premier Shinawatra: folla davanti alla sede del governo dopo lo scandalo telefonico

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Centinaia di manifestanti si sono radunati oggi davanti alla sede del governo della Thailandia per chiedere le dimissioni della premier Paetongtarn Shinawatra, finita nella bufera dopo la diffusione di un audio compromettente che la ritrae in una telefonata privata con l’ex premier cambogiano Hun Sen. La protesta, svoltasi sotto un sole torrido, ha visto in prima linea i sostenitori del movimento conservatore delle “magliette gialle”, tradizionalmente legato alla monarchia e da sempre ostile alla potente dinastia politica degli Shinawatra.

Gli slogan contro la premier sono stati duri: “Tradimento”, “incapacità diplomatica”, “vergogna nazionale”. La diffusione della registrazione – avvenuta a sua insaputa secondo la stessa Shinawatra – ha alimentato una profonda crisi politica che rischia di far cadere il governo, in carica da meno di un anno.

Lo scandalo della telefonata che indigna la Thailandia

Nel colloquio privato, registrato dal telefono personale della premier e poi trapelato online, Paetongtarn Shinawatra chiedeva a Hun Sen di non dare peso alle pressioni interne – provenienti dalla politica e dai vertici militari thailandesi – per una risposta muscolare alle crescenti tensioni con Phnom Penh. Oggetto del contendere, un tratto di confine conteso tra i due Paesi, che ha già portato allo schieramento di truppe da entrambe le parti.

Le parole della premier sono state interpretate da molti come un segnale di debolezza diplomatica, mentre le forze armate spingono per una linea più dura. In risposta, Paetongtarn ha dichiarato che l’audio è stato reso pubblico senza il suo consenso e ha ribadito che il governo è pronto a sostenere l’esercito “in ogni modo necessario”.

La crisi della coalizione

A peggiorare la situazione, l’annuncio arrivato ieri da parte del partito conservatore Bhumjaithai – secondo gruppo della coalizione – che ha comunicato il proprio ritiro dal governo. La decisione, si legge in un comunicato, è stata presa proprio in seguito alla fuga di notizie sulla telefonata, accusando la premier di aver compromesso “l’onore e l’integrità del Paese”.

Con i suoi 69 seggi, l’uscita di Bhumjaithai riduce la maggioranza parlamentare a un margine estremamente fragile, mettendo in seria discussione la tenuta dell’esecutivo. La popolarità della premier è già in calo, complice anche una stagnazione economica sempre più pesante e l’ombra di possibili dazi statunitensi che potrebbero colpire l’export thailandese.

Una leadership in bilico

Paetongtarn Shinawatra, 38 anni, è salita al potere meno di un anno fa dopo la destituzione del precedente premier da parte della magistratura. Figlia di Thaksin Shinawatra, figura chiave della politica thailandese degli ultimi decenni, ha cercato finora di bilanciare le pressioni interne con un approccio più moderato in politica estera. Ma proprio questa strategia le si sta ora ritorcendo contro.

Con un governo indebolito, proteste in piazza e le forze armate sempre più influenti sul piano politico e territoriale, il futuro della premier appare appeso a un filo. E mentre la Thailandia si interroga sulla sua tenuta democratica, l’instabilità rischia di acuirsi in una regione già attraversata da tensioni geopolitiche.

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