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India e Pakistan di nuovo ai ferri corti. Nuova Delhi accusa Islamabad di “favorire il terrorismo” che risponde minacciando la ripresa delle ostilità

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Malgrado una fragile tregua, resta alta la tensione tra India e Pakistan. A riaccendere lo scontro, fortunatamente solo verbale, è stato il primo ministro indiano, Narendra Modi, che ha sottolineato come tra l’attentato del 22 aprile nel Kashmir indiano e la successiva rappresaglia siano passate due settimane, nell’attesa – a suo dire vana – di un intervento contro il terrorismo da parte delle autorità di Islamabad.

“Abbiamo atteso 15 giorni, aspettandoci che il Pakistan prendesse provvedimenti contro il terrorismo. Ma forse il terrorismo è la loro fonte di sostentamento. Quando non hanno fatto nulla, ho dato piena libertà alle nostre forze armate”, ha spiegato Modi. “Gli obiettivi erano i quartieri generali dei terroristi” e “le nostre forze hanno colpito direttamente, senza danneggiare nessuno nelle vicinanze. Tuttavia, mentre noi attaccavamo i nascondigli dei terroristi, il Pakistan cercava di attaccare i nostri civili innocenti”, ha accusato Modi.

India e Pakistan di nuovo ai ferri corti. Nuova Delhi accusa Islamabad di “favorire il terrorismo” che risponde minacciando la ripresa delle ostilità

Quel che è certo, secondo il leader di Nuova Delhi, è che “abbiamo risposto agli attacchi del Pakistan con una tale potenza che le loro basi aeree sono ancora in terapia intensiva e ancora oggi non si sono riprese! Alla fine, il Pakistan è stato costretto ad arrendersi (…) sventolando bandiera bianca e dicendo che non voleva più combattere”.

Parole a cui ha replicato il ministero degli Esteri del Pakistan, secondo cui le dichiarazioni di Modi “invocano la violenza e alimentano l’odio”, ma soprattutto “violano palesemente i principi fondamentali della Carta delle Nazioni Unite, che obbliga gli Stati membri a risolvere pacificamente le controversie e ad astenersi dalla minaccia o dall’uso della forza contro la sovranità o l’indipendenza politica di altri Stati”.

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Tragedia in India: un Boeing di Air India diretto a Londra con 242 persone a bordo è precipitato su un centro abitato

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Tragedia nei cieli dell’India. Un Boeing 787-8 Dreamliner della compagnia Air India, volo AI171 diretto a Londra Gatwick, è precipitato oggi pochi minuti dopo il decollo dall’aeroporto internazionale Sardar Vallabhbhai Patel di Ahmedabad, nello Stato del Gujarat. A bordo c’erano 242 persone, tra cui 230 passeggeri e 12 membri dell’equipaggio. Secondo quanto riferito dall’emittente indiana News18 non ci sarebbero supestiti.

Il disastro si è consumato intorno alle 13:38 ora locale, quando il velivolo – decollato da pochi secondi – ha interrotto i contatti radio con la torre di controllo e ha lanciato un mayday. I dati di volo indicano che il Boeing non aveva ancora superato i 625 piedi di altitudine, circa 200 metri, prima di precipitare su una zona residenziale della città, Meghani Nagar. Le immagini trasmesse dalle emittenti locali mostrano macerie, edifici anneriti dal fuoco e un frammento della carlinga ancora in fiamme.

Tragedia in India: un Boeing di Air India diretto a Londra con 242 persone a bordo è precipitato su un centro abitato

Secondo la Direzione Generale dell’Aviazione Civile (DGCA), i piloti avevano segnalato un’emergenza poco dopo il decollo. L’aereo ha colpito le abitazioni della zona densamente popolata, provocando danni anche a terra, ma al momento non è noto se vi siano vittime tra i residenti. I servizi di emergenza sono intervenuti immediatamente, e numerosi feriti sono stati trasportati negli ospedali più vicini.

La compagnia Air India ha confermato in una nota l’incidente e la composizione internazionale dei passeggeri: tra di loro vi erano 169 cittadini indiani, 53 britannici, 7 portoghesi e un canadese. Il Boeing 787-8 Dreamliner era uno dei più recenti modelli della flotta Air India e, secondo il database dell’Aviation Safety Network, si tratterebbe del primo incidente mortale che coinvolge questo tipo di aereo.

Il premier indiano Narendra Modi si è detto in stretto contatto con il ministro dell’Aviazione Civile, Rammohan Naidu, e ha ordinato che vengano impiegate tutte le risorse disponibili per le operazioni di soccorso. Il ministro si è recato sul luogo della tragedia nel pomeriggio.

Le cause dell’incidente restano da chiarire. Le autorità aeronautiche hanno avviato un’indagine per ricostruire l’accaduto, mentre Air India ha assicurato che fornirà aggiornamenti ufficiali attraverso i propri canali.

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Sulla guerra in Ucraina, Usa e Ue sempre più distanti. Bruxelles vara il 18esimo pacchetto di sanzioni contro Mosca mentre Washington pensa a tagliare gli aiuti militari a Kiev

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Con la Russia che continua a bombardare l’Ucraina e ad avanzare nel Donbass, dove ha conquistato altri due villaggi, l’Unione Europea e gli Stati Uniti appaiono sempre più distanti sui passi da intraprendere per spingere le parti a porre fine alla guerra in Ucraina. Infatti, mentre il Consiglio UE ha dato il via libera a nuovi dazi sui prodotti agricoli e su alcuni fertilizzanti provenienti da Russia e Bielorussia, non ancora soggetti a dazi doganali aggiuntivi, così da ridurre la capacità di Mosca di finanziare la guerra, da Washington si preferisce evitare nuove sanzioni contro il Cremlino, scegliendo invece di fare pressioni su Volodymyr Zelensky.

A dirlo in modo chiaro è stato il Segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Pete Hegseth, che, in audizione al Congresso americano, ha ribadito che Donald Trump, dopo aver dirottato una fornitura di circa 20mila missili antiaerei dall’Ucraina al Medio Oriente, sta seriamente pensando di “ridurre ulteriormente gli aiuti militari a Kiev”.

Parole a cui ha risposto Zelensky, dicendosi sicuro — in un’intervista alla Bild — che “la Russia stia mentendo a Trump”, raccontandogli della propria disponibilità a trattare al fine di fare “in modo che non vengano applicate nuove sanzioni” nei confronti del Cremlino.

Lo zar “cerca semplicemente ragioni per attaccare. Non vuole mettere fine alla guerra”, ha aggiunto il leader di Kiev, prima di ammettere che l’eventuale riduzione delle forniture americane sarebbe “dolorosa” e potrebbe causare potenziali “conseguenze disastrose” per l’intero ordine mondiale.

Sulla guerra in Ucraina, Usa e Ue sempre più distanti. Bruxelles vara il 18esimo pacchetto di sanzioni contro Mosca mentre Washington pensa a tagliare gli aiuti militari a Kiev

In questo scenario appare chiaro come il supporto dell’UE sia letteralmente vitale per la resistenza dell’Ucraina. Lo sa bene Zelensky che, sempre parlando con la Bild, ha chiesto all’Europa “maggiori sforzi per fornire sistemi di difesa anti-aerea”, auspicando anche “una veloce consegna dei missili Taurus” da parte del cancelliere Friedrich Merz.

Ed è in questo contesto che Bruxelles, rinnovando il suo supporto all’Ucraina “fino a quando sarà necessario”, ha dato il via libera al 18° pacchetto di sanzioni contro Mosca.

Misure che hanno mandato su tutte le furie il Cremlino, con l’amministrazione di Vladimir Putin che ha promesso di “rispondere alle sanzioni come abbiamo già fatto in precedenza”, ricordando come “con le sanzioni, gli europei spesso si danno la zappa sui piedi”, mentre — secondo Mosca — le conseguenze per la Russia sarebbero “minime”.

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Le proteste anti-Trump dilagano in tutti gli Stati Uniti: arresti, coprifuochi e scontri con la polizia proseguono per il settimo giorno consecutivo

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Le proteste contro le politiche migratorie del presidente Donald Trump continuano ad allargarsi a macchia d’olio negli Stati Uniti, mentre cresce la tensione tra manifestanti e forze dell’ordine. Migliaia di persone sono scese in piazza la scorsa notte in numerose città, da Los Angeles a New York, per protestare contro le recenti operazioni dell’agenzia federale Ice e l’uso crescente della forza da parte dell’amministrazione.

Le mobilitazioni, iniziate venerdì scorso a Los Angeles, si sono intensificate dopo che la Casa Bianca ha disposto la mobilitazione della Guardia nazionale e dei Marine in California e imposto il coprifuoco in diverse aree urbane. La mossa ha innescato nuove manifestazioni in tutto il Paese e alimentato un clima di crescente scontro istituzionale.

Le proteste anti-Trump dilagano in tutti gli Stati Uniti: arresti, coprifuochi e scontri con la polizia proseguono per il settimo giorno consecutivo

A Seattle, nello Stato di Washington, otto persone sono state arrestate durante una manifestazione che inizialmente si era svolta in modo pacifico. La situazione è degenerata in serata, con lanci di oggetti contro la polizia e l’incendio di un cassonetto. A Spokane, sempre nello Stato di Washington, è stato dichiarato lo stato d’emergenza: oltre 30 arresti e l’impiego di fumogeni per disperdere i manifestanti.

A Las Vegas, la polizia ha dichiarato “assemblea illegale” un presidio nei pressi del tribunale federale e ha ordinato lo sgombero dell’area, minacciando arresti. A New York, circa 200 persone si sono radunate a Manhattan: anche qui si sono registrati alcuni fermi.

In Texas la Guardia nazionale è stata mobilitata preventivamente in vista di nuovi cortei. Il sindaco di Houston, John Whitmire, ha lanciato un appello alla calma. Altri cortei si sono svolti anche in Saint Louis, Denver, San Francisco, Chicago, Dallas, Filadelfia, Indianapolis, Milwaukee, Boston, Atlanta e Washington DC.

La linea dura dell’amministrazione

A Los Angeles, le autorità hanno dichiarato non autorizzata una manifestazione davanti al municipio e sono stati eseguiti tra i 20 e i 30 arresti, secondo quanto riferito dalla CNN. I disordini sarebbero scoppiati dopo una serie di retate dell’Ice, che nei giorni scorsi ha fermato decine di persone, anche nei luoghi di lavoro.

Il segretario alla Difesa, Pete Hegseth, ha difeso la scelta del presidente Trump di mobilitare le forze armate. Parlando davanti al Congresso, ha definito l’intervento “necessario per creare un precedente” da replicare in altri Stati. “Si tratta anche di prevenzione – ha detto – se altrove si dovessero verificare rivolte o minacce alle forze dell’ordine, avremo la capacità di intervenire rapidamente”.

Non sono mancate critiche al governatore democratico della California, Gavin Newsom, accusato di “reticenza” nel cooperare con le forze federali. Anche la procuratrice generale Pam Bondi ha dichiarato che l’amministrazione “non ha paura di andare oltre”, lasciando intendere che il ricorso alla Legge sull’insurrezione – che autorizza l’impiego dell’esercito per sedare disordini interni – resta un’opzione concreta.

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