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Il Dalai Lama annuncia il futuro della sua successione. La Cina si oppone: “Serve l’approvazione di Pechino”

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Il Dalai Lama ha annunciato ufficialmente l’intenzione di garantire la continuità della sua figura spirituale anche dopo la sua morte, suscitando l’immediata reazione della Cina, che rivendica il diritto di intervenire nella scelta del suo successore. Una nuova tensione, quindi, si accende intorno alla questione tibetana, da decenni al centro di un delicato equilibrio tra fede, identità e geopolitica.

Nel giorno del suo 90° compleanno, la guida spirituale del popolo tibetano – in esilio dal 1959 a McLeod Ganj, in India – ha reso pubblica una dichiarazione in cui conferma che, alla sua morte, sarà nominato un successore. Una decisione dettata dalle numerose richieste ricevute dai fedeli di tutto il mondo che temono la fine dell’istituzione del Dalai Lama. «In accordo con tutte queste richieste, affermo che l’istituzione del Dalai Lama continuerà», ha affermato nel messaggio letto dal suo monastero.

Il leader ha inoltre specificato che il processo di identificazione della sua reincarnazione sarà gestito esclusivamente dalla Gaden Phodrang Foundation, l’organizzazione da lui stesso fondata nel 2015 per preservare e sostenere la sua missione spirituale. “Nessun altro ha l’autorità di interferire in questa questione”, ha ribadito.

Il Dalai Lama annuncia il futuro della sua successione. La Cina si oppone: “Serve l’approvazione di Pechino”

La Cina non ha tardato a reagire. In una conferenza stampa, un portavoce del Ministero degli Esteri cinese ha chiarito che, secondo Pechino, la reincarnazione del Dalai Lama deve avvenire nel rispetto delle leggi e dei regolamenti cinesi, oltre che delle “convenzioni storiche e dei rituali religiosi”.

In particolare, il governo cinese fa riferimento al sistema dell’urna d’oro, un’antica pratica introdotta nel 1792 dall’imperatore Qing, secondo cui l’identificazione del nuovo Dalai Lama avviene tramite estrazione a sorte. Una procedura che, secondo Pechino, garantisce autenticità e tradizione, ma che secondo i critici è stata più volte manipolata dal potere politico per controllare la successione.

“L’identificazione del successore può avvenire solo tramite l’urna d’oro”, ha ribadito il portavoce cinese, sottolineando che questa prassi rientra nella “libertà di credo religioso” garantita dal governo.

Lo scontro, dunque, appare inevitabile: da una parte, il Dalai Lama rivendica la piena autonomia spirituale e religiosa del buddhismo tibetano; dall’altra, Pechino intende esercitare un controllo diretto sulla successione, interpretandola come una questione interna e strategica, tanto religiosa quanto politica.

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Libia, proteste e tensioni a Tripoli: manifestanti bloccano la strada costiera dopo il rapimento dell’attivista Al-Marimi

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Le tensioni in Libia tornano ad accendersi, mentre cresce l’indignazione per il rapimento di Abdelmonem Al-Marimi, attivista e oppositore politico noto per le sue posizioni critiche verso il governo di unità nazionale. A far esplodere la rabbia popolare è stato l’episodio avvenuto sabato sera nella città di Sorman, dove Al-Marimi è stato prelevato con la forza da uomini armati non identificati mentre si trovava in auto con i figli. I rapitori lo hanno fatto scendere dal veicolo lasciando i bambini soli, e da allora non si hanno più sue notizie.

In risposta, un gruppo di manifestanti provenienti dalla vicina Zawiya ha bloccato la strada costiera che collega Tripoli alla parte occidentale del Paese, una delle arterie principali della Libia. I dimostranti chiedono con forza la liberazione immediata e incondizionata dell’attivista e vogliono conoscere il suo destino, temendo per la sua incolumità.

Libia, proteste e tensioni a Tripoli: manifestanti bloccano la strada costiera dopo il rapimento dell’attivista Al-Marimi

Durante la protesta sono stati esposti cartelli che condannano “il silenzio ufficiale di fronte alle continue violazioni della libertà di espressione”, mentre si chiede alle autorità giudiziarie e di sicurezza di intervenire con decisione contro quella che i manifestanti definiscono “l’arroganza dei gruppi armati”. Le accuse più gravi sono rivolte al governo di unità nazionale guidato da Abdelhamid Dabaiba, indicato da alcuni partecipanti come direttamente responsabile o comunque complice di quanto accaduto.

Abdelmonem Al-Marimi, figura di riferimento per l’opposizione, è da tempo una delle voci più critiche nei confronti delle politiche di sicurezza del governo, accusato da più parti di tollerare – se non favorire – l’azione incontrollata di milizie armate e gruppi di potere paralleli. Il suo sequestro rappresenta, per molti, l’ennesima prova della fragilità dello stato di diritto in un Paese ancora profondamente diviso e instabile.

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Serbia, quarto giorno di proteste: Belgrado paralizzata. Vucic promette il pugno duro contro i manifestanti

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Belgrado, capitale della Serbia, è ancora una volta teatro di proteste e blocchi stradali, nel quarto giorno consecutivo di manifestazioni contro il governo del presidente Aleksandar Vucic. Le tensioni sono esplose dopo gli scontri e gli arresti verificatisi sabato scorso durante una manifestazione antigovernativa, e da allora studenti e cittadini continuano a scendere in piazza chiedendo elezioni parlamentari anticipate e il rilascio di tutti i fermati.

Nel cuore della capitale serba, cassonetti e cancelli mobili sono stati utilizzati per ostruire le principali arterie stradali, provocando gravi disagi alla circolazione e al trasporto pubblico. Secondo quanto riferisce l’emittente nazionale RTS, oltre 30 linee dei mezzi pubblici risultano bloccate, mentre si segnalano anche episodi di tensione, con auto che nella serata di ieri hanno tentato di forzare i blocchi. A Belgrado è stato arrestato uno studente universitario, mentre a Novi Sad due manifestanti sono rimasti feriti. A Nis, alcuni cittadini coinvolti nei presidi sono stati multati.

Serbia, quarto giorno di proteste: Belgrado paralizzata. Vucic promette il pugno duro contro i manifestanti

Il governo serbo ha risposto con fermezza crescente. Il presidente Vucic ha annunciato una linea dura nei confronti di chi tenterà di bloccare infrastrutture strategiche del Paese. “Non consentiremo che le strutture vitali della Serbia vengano mai più fermate”, ha dichiarato in un discorso dai toni duri. “Se intendete bloccare l’aeroporto Nikola Tesla, il ponte Gazela o la centrale termoelettrica, sarete arrestati. Tutti quanti. Basta con questo tipo di molestie”, ha aggiunto, rivolgendosi direttamente ai manifestanti.

Nella giornata di oggi, la situazione appare in parziale miglioramento: nella maggior parte delle strade di Belgrado il traffico è tornato a scorrere regolarmente, così come il trasporto pubblico, ripristinato secondo l’orario consueto. Tuttavia, il clima rimane teso e l’opposizione ha annunciato nuove mobilitazioni per i prossimi giorni.

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Trump convince Netanyahu ad accettare la tregua a Gaza e spinge Hamas a fare lo stesso. Ma Bibi non si dà per vinto e si prepara a chiedere l’ok a nuovi attacchi sull’Iran

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Con il più classico dei colpi di scena, il presidente americano Donald Trump ha annunciato la disponibilità di Benjamin Netanyahu a siglare un accordo di cessate il fuoco temporaneo con Hamas. “I miei rappresentanti hanno avuto un lungo e produttivo incontro con gli omologhi israeliani su Gaza”, ha scritto il tycoon sul social Truth, aggiungendo che “Israele ha accettato le condizioni necessarie per finalizzare il cessate il fuoco di 60 giorni, durante il quale lavoreremo con tutte le parti per porre fine alla guerra”.

“Qatarini ed egiziani, che hanno lavorato duramente per contribuire a portare la pace, presenteranno la proposta finale di accordo, e spero, per il bene del Medio Oriente, che Hamas la accetti, perché altrimenti la situazione non migliorerà, ma peggiorerà soltanto”, ha concluso Trump.

Parole a cui ha risposto a distanza il funzionario di Hamas, Taher al-Nunu, affermando che il movimento estremista palestinese è “pronto ad accettare qualsiasi iniziativa che porti chiaramente alla fine completa della guerra”, ma che non ha ancora accolto la proposta sostenuta dagli Stati Uniti, in quanto non è stata ancora materialmente inviata.

Trump convince Netanyahu ad accettare la tregua a Gaza e spinge Hamas a fare lo stesso. Ma Bibi non si dà per vinto e si prepara a chiedere l’ok a nuovi attacchi sull’Iran

Insomma, si aprono in modo del tutto improvviso degli spiragli di pace per la Striscia di Gaza. Secondo quanto riferisce il quotidiano israeliano Jerusalem Post, la bozza di accordo preparata dai mediatori del Qatar sarebbe una rielaborazione del precedente piano elaborato dall’inviato degli Stati Uniti per il Medio Oriente, Steve Witkoff, respinto da Hamas il mese scorso.

Sostanzialmente, la proposta prevede il rilascio di otto ostaggi il primo giorno del cessate il fuoco, seguito dalla liberazione di altri due ostaggi prima del termine della tregua di 60 giorni. In questi due mesi, complice lo stop ai combattimenti, dovrebbero svolgersi i colloqui sulla fine definitiva della guerra. Al momento, secondo quanto riporta Axios, non è chiaro se l’ultima proposta preparata dal Qatar affronti il punto critico fondamentale dei colloqui: la richiesta di Hamas di un fermo impegno da parte degli Stati Uniti affinché la tregua di 60 giorni porti alla fine permanente della guerra.

Del resto, per Israele qualsiasi cessate il fuoco a lungo termine deve includere la rimozione di Hamas dal potere, lo smantellamento della sua ala militare e l’esilio dei suoi comandanti di alto livello. Inoltre, Netanyahu ha già chiarito di volere che Gaza sia amministrata da funzionari palestinesi locali, rigorosamente non affiliati né a Hamas né all’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), con alcuni Stati arabi — come Egitto, Giordania, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita — che garantiscano la sicurezza dello Stato ebraico.

La questione iraniana

Ma a far trattenere il fiato a tutto il Medio Oriente sono le ultime indiscrezioni sull’incontro a Washington, previsto per il 7 luglio, tra Trump e Netanyahu. Se in un primo momento il vertice sembrava destinato a cercare una soluzione al conflitto nella Striscia di Gaza, concentrandosi in particolare sulla liberazione degli ostaggi e sull’eventuale espansione degli Accordi di Abramo, ora i media israeliani riportano ulteriori dettagli che rischiano di alzare la tensione nella regione.

Come riferisce l’emittente israeliana Kan, Netanyahu sarebbe deciso a chiedere al presidente degli Stati Uniti un sostanziale via libera per un eventuale nuovo attacco contro l’Iran, nel caso in cui Tel Aviv dovesse rilevare la ripresa delle attività nucleari o preparativi per una massiccia produzione missilistica. Un’eventualità tutt’altro che remota, visto che il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, in un’intervista alla CBS News, ha ammesso che il bombardamento statunitense sul sito nucleare di Fordow ha “gravemente e pesantemente danneggiato” l’impianto, che ora dovrà essere “riparato” dai tecnici iraniani, poiché Teheran “non intende rinunciare al proprio programma per il nucleare civile”.

Aumentano inoltre i timori israeliani per la decisione del presidente iraniano, Masoud Pezeshkian, di notificare ufficialmente all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) la sospensione della cooperazione, rendendo di fatto la ripresa dei lavori sul nucleare non più soggetta a controlli internazionali.

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