Guerra Ucraina
Trump frena Kiev: “Non vincerà”. E ora l’Europa blocca il gas russo
Anche se arrivano proclami, smentite e fighe in avanti, la coperta della pace sembra sempre essere corta. Perché il potenziale compromesso che possa mettere insieme le pretese russe e le ragioni ucraine rimane molto difficile da raggiungere, anche se gli sforzi di Trump (piaccia o no l’unico in grado di fare la differenza al tavolo delle trattative) si fanno sempre più intensi. Ieri il tycoon ha smentito seccamente le indiscrezioni secondo cui avrebbe forzato Zelensky a cedere il Donbass come parte dell’accordo di pace. «Si fermino. Lasciate tutto com’è ora. Tutto è già deciso. Il 78% del territorio è già occupato dalla Russia. Potranno negoziare qualcosa più avanti», ha detto, ipotizzando quindi un congelamento del fronte sulle attuali posizioni. «Siamo vicini a una possibile fine della guerra. Ve lo dico con certezza», ha commentato Zelensky lasciando trapelare un insolito ottimismo mentre il Cremlino continua a nicchiare e tesse la tela per arrivare in posizione di forza al colloquio Putin-Trump in vista a Budapest.
Le parole di Trump fanno parte dell’ormai consueta dialettica presidenziale per cui mischiare le carte è un’abitudine, tanto poi da aggiungere: «L’Ucraina potrebbe ancora vincere, ma non credo ci riuscirà. Potrebbe accadere qualsiasi cosa». Mentre quelle di Zelensky fanno più rumore e alimentano speranze, anche se pure in questo caso i «se» e i «ma» non mancano. «Questo non significa che finirà sicuramente – ha aggiunto il leader ucraino – ma il presidente Trump ha ottenuto molto in Medioriente e, su questa scia, vuole porre fine alla guerra della Russia contro l’Ucraina. Stiamo adottando alcune misure in questo senso, come i Tomahawk, e si tratta di misure nuove che mettono davvero sotto pressione la Russia», ha spiegato il presidente ucraino. La sensazione è che appunto tutto sia appeso alle capacità negoziali e persuasive di Trump, a cui evidentemente Kiev adesso crede molto di più. Restano da chiarire diversi punti, tra cui l’imparzialità del terreno in cui si svolgerà l’incontro: «Non credo che Budapest sia la sede migliore per questo incontro. Se può portare la pace, non importa in quale Paese si terrà», ha ammesso Zelensky, ribadendo la propria disponibilità a partecipare a qualsiasi bilaterale o trilaterale venga organizzato. «Se vengo invitato a Budapest, ci metteremo d’accordo». Intanto la complessa macchina organizzativa, al di là dei limiti imposti dal mandato di arresto a carico di Putin, inizia a muoversi. Ieri il segretario di Stato americano Marco Rubio ha avuto una conversazione telefonica con il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov e dopodomani, giovedì, potrebbe teneri anche un faccia a faccia tra i due.
«Non dobbiamo dimenticare è che la Russia è l’aggressore e l’Ucraina è la vittima», ha comunque sottolineato l’Alto rappresentante per la politica Ue Kaja Kallas. Premessa d’obbligo, perché dal Cremlino Peskov invoca passi avanti verso la pace ma intanto precisa che «la posizione russa sul conflitto è invariata», mettendo quindi un freno a ogni possibile compromesso. Mentre sull’utilizzo dei beni russi congelati, l’ambasciatore russo a Roma Alexei Paramonov minaccia l’Italia: «Attenti alle ritorsioni. Sarebbe classificato come furto e costringerà la Russia ad impegnarsi immediatamente in un meccanismo di ritorsione», ha scritto via social.
Nel frattempo, anche se a fatica e come spesso accade senza ancora una unanimità, si muove l’Europa. Il consiglio d’Europa ha stabilito lo stop totale all’approvvigionamento di gas russo a partire dal primo gennaio 2026. «Con questa decisione anche dopo un eventuale accordo di pace l’Ue non importerà più l’energia russa, ed è un segnale molto molto importante», spiega il commissario Ue all’energia Dan Jorgensen. Un segnale forte, ma non semplice. La Slovacchia, per esempio, ha già fatto sapere che voterà contro la decisione e seguita a ruota dall’Ungheria. Qualcosa si muove, quindi. Ma la strada verso la pace è tutt’altro che in discesa.
Guerra Ucraina
All’Ucraina serve aiuto: la capacità di resistenza fiaccata dal tradimento di Trump
Nella sua “Fenomenologia dello spirito”, Hegel, in riferimento al rapporto tra servo e signore, ricorda la parola d’ordine “Libertà o morte!”. Un motto tanto importante da essere cucito sulle bandiere durante la Rivoluzione francese. La libertà è una rischiosa conquista. A meritarla è chi mette in gioco la propria vita pur di non inchinarsi davanti al tiranno. Chi invece, magari per timore, baratta la libertà con la propria sopravvivenza, merita di servire alle dipendenze di qualcuno.
La storia, come sempre, ci insegna. Winston Churchill non si piegò davanti a Hitler. Non lo fecero i partigiani italiani con i nazifascisti. E non lo sta facendo, da quasi quattro anni, il popolo ucraino nei confronti di un autocrate spietato come Putin. Questo popolo sta affrontando il terzo inverno consecutivo in condizioni infernali, mentre la sua capacità di resistenza rischia di essere fiaccata dal “tradimento” di Trump e dai ritardi europei nella fornitura di aiuti finanziari e militari. Hic Rhodus, hic salta. Il tempo delle promesse non mantenute, o mantenute parzialmente, è scaduto. Volodymyr Zelensky lo ha detto chiaramente. E l’avanzata russa a Pokrovsk dovrebbe suonare come un campanello di allarme per tutti i governi democratici del nostro continente.
In Italia, sono numerosi gli avvoltoi che attendono con ansia il crollo definitivo di questo bastione-simbolo della lotta di Kyiv contro il progetto neoimperiale di Putin. Non mi riferisco solo alle Cassandre della realpolitik che la deridono in nome delle dure leggi della storia. Ciò che più colpisce e preoccupa è l’indifferenza della sinistra di fronte a una tragedia che ha come posta in gioco il futuro dell’Europa.
Il prossimo 22 novembre si commemorano i milioni di morti ucraini dell’Holodomor, la carestia pianificata dal regime sovietico tra il 1929 e il 1933 per ridurre alla fame i contadini kulaki e quanti si opponevano alla collettivizzazione delle campagne. Oggi l’erede di Stalin sta pianificando l’annientamento dello stesso popolo costringendolo a vivere al buio e al freddo, senza acqua e con poco cibo.
E però i “costruttori di pace” non battono ciglio. Non chiedono a Mosca di fermarsi e di fare un passo indietro. Chiedono di non dare più armi a Kyiv. Alcuni sono apertamente filorussi, come i “progressisti” pentastellati, altri sono solo pallidi emuli dei Neville Chamberlain e dei Lord Halifax dell’appeasement con Hitler. Diceva lo storico inglese Thomas Fuller (1654-1734) che è “follia per la pecora parlare di pace con il lupo”. Significa che non bisogna mai trattare con l’orso del Cremlino? No, significa che non si può trattare con chi ti tiene puntata la pistola o, meglio, un missile alla tempia. Non è difficile da capire.
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Guerra Ucraina
Guerra in Ucraina, l’assedio russo e lo scandalo corruzione che colpisce i ministri di Kiev: Zelensky nella nebbia
L’assedio esterno e i problemi interni. Per il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, sono ore particolarmente critiche. Il fronte di Pokrovsk appare sempre più in bilico. Immerse nella nebbia che ha coperto la città-simbolo di questa fase della guerra, le truppe russe stanno procedendo, soprattutto perché le condizioni meteorologiche non permettono ai droni ucraini di colpire come hanno sempre fatto. Sui social, è diventato virale il video di uomini dell’Armata mentre percorrono l’autostrada che collega Pokrovsk a Selidove a bordo di moto e automobili civili. E dal fronte si susseguono notizie di conquiste da parte russa, smentite dagli ucraini.
Il ministero della Difesa di Mosca ieri ha annunciato la conquista di un altro villaggio a sud di Pokrovsk, Sukhyi Yar. Kyiv, dal canto suo, ha negato un’altra notizia diffusa dai russi, cioè che la fanteria di Marina del 30esimo Corpo si sarebbe arresa nei pressi di Myrnohrad. Secondo Ukrinform, le forze russe si starebbero dispiegando in tutta l’area di Pokrovsk con mezzi pesanti, personali e nuove attrezzature. Rispetto alla scorsa settimana, gli assalti alla città sono aumentati del 20%. E approfittando del clima ostile per chi difende, le truppe di Vladimir Putin starebbero penetrando sempre di più nelle aree meridionali di Pokrovsk. “Non basta mandare una dozzina di militari di fanteria, c’è un mare di nemici” ha ammesso una fonte a Ukrainska Pravda. E le colonne russe preoccupano sempre di più Zelensky, che ieri ha di nuovo chiesto ai partner europei di intervenire con maggiori aiuti in favore di Kyiv, a partire dalla difesa aerea.
Un tema fondamentale, per il leader ucraino, che ora però deve anche gestire il terremoto che sta scuotendo le fondamenta del suo governo. L’indagine dell’Ufficio nazionale anticorruzione (il Nabu) sulle tangenti che le società appaltatrici erano costrette a pagare alla società statale per l’energia nucleare, Energoatom, ha scoperto un sistema radicato ai massimi livelli. E a pagare sono stati subito due ministri: quello dell’Energia, Svitlana Grynchuk, e quello Giustizia, Herman Halushchenko, costretti a dimettersi subito dopo la scoperta del sistema. “Questa è una questione anche di fiducia”, ha scritto su Telegram Zelensky. “Se ci sono accuse, ne devono rispondere. La decisione di sospendere dall’incarico è operativa, la più rapida. Ho chiesto al Primo Ministro dell’Ucraina che questi ministri presentino le loro dimissioni e chiedo ai deputati della Verkhovna Rada di approvare queste dimissioni” ha continuato il presidente.
Ma il presunto schema va ben oltre le due figure ministeriali. Secondo le prime ricostruzioni, il vertice di questa piramide di corruzione sarebbe uno dei più stretti collaboratori dello stesso Zelensky, Timur Mindich, che era coproprietario insieme al capo dello Stato della società di produzione Kvartal 95 (finché Zelensky non ha ceduto le quote una volta diventato presidente). Tra gli osservati speciali vi sono poi l’ex vice primo ministro Oleksiy Chernyshov, l’ex ministro della Difesa, Rustem Umerov, ora segretario del Consiglio di sicurezza e difesa nazionale. Altri personaggi, tutti intercettati mentre usavano nomi in codice, sarebbero già fuggiti all’estero o sotto indagini in altri Paesi, anche negli Stati Uniti.
Ma quello che preoccupa Zelensky, oltre alla fiducia dei cittadini nei riguardi del suo esecutivo, è anche il rischio che questo tipo di indagini rafforzi ancora di più le perplessità americane e di una parte dell’Europa sulla gestione degli aiuti e sulla trasparenza di Kyiv in vari settori strategici. Ieri, il ministro degli Esteri Antonio Tajani, in Canada per la ministeriale Esteri del G7, ha incontrato l’omologo ucraino Andry Sibiha e i colleghi di Francia e Germania in una riunione che ha coinvolto anche l’Alta rappresentante dell’Unione europea, Kaja Kallas. Tajani ha ribadito che verrà fornito all’Ucraina ogni aiuto possibile. Ma Mosca ha già iniziato a soffiare sul fuoco dello scandalo. “Il Cremlino ha sicuramente prestato attenzione alla questione” ha detto il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, “riteniamo che anche le capitali europee e gli Stati Uniti ne abbiano preso atto”.
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Guerra Ucraina
L’Europa non capisce il sentimento di Kiev
Sarà solo un’impressione ma forse nel momento più delicato della guerra sembra che le due anime dell’Occidente, per ragioni diverse, guardino con una certa distanza ai problemi di Kiev. Mentre la Russia sta mettendo in campo il massimo sforzo bellico per dare una spallata all’esercito ucraino, finora invano, Washington è quasi volontariamente distratta mentre le capitali europee fanno meno di quanto promesso. L’atteggiamento di Donald Trump è ispirato al pendolo: alza la voce, si lancia in qualche velata minaccia, ma poi la rimuove, torna la calma e si concentra solo su Medio Oriente e Venezuela. Si riparla dell’incontro di Budapest con Putin ma sembra quasi che l’inquilino della Casa Bianca guardi con malcelato fastidio alla capacità degli ucraini di resistere: si ha la sensazione che da quelle parti vorrebbero che i russi facessero quei progressi sul campo che tardano a venire per creare le condizioni di una tregua che sancisca il nuovo confine su una linea del fronte che accontenti lo Zar. L’Europa, invece, appare stanca, stremata: le cancellerie europee sanno che non possono tirarsi indietro per non perdere la faccia e darla vinta ad un Putin che potrebbe essere incoraggiato a proseguire nella sua politica aggressiva. Ma i bilanci sono quello che sono, le promesse come la fornitura dei missili taurus dalla Germania sono scritte sull’acqua e l’utilizzo degli asset russi per mille difficoltà tarda a venire. L’unica speranza è che dalla riunione delle diplomazie europee del prossimo 10 dicembre a Leopoli venga una spinta che velocizzi l’adesione di Kiev alla Ue.
Francamente è un po’ poco mentre l’armata rossa è penetrata nella roccaforte di Pokrovosk e punta su Zaporizzja e Kherson. Anche da noi si va avanti con cautela sull’impegno assunto di comprare armi americane da dare a Kiev: dentro il governo Salvini e Giorgetti puntano i piedi e il ministro della difesa Crosetto si rifugia nel “no comment” e intanto cambia il biglietto aereo che doveva portarlo a Washington con quello per Berlino.
Siamo al paradosso: dopo una cascata di parole e un mare di retorica nella fase più cruenta e delicata del conflitto l’Occidente appare più lontano da Kiev. Magari c’è chi pensa che gli ucraini possano stancarsi, ma è un calcolo sbagliato e dimostra solo quanto l’Occidente sia invecchiato e non si renda conto che questa è una guerra ispirata ai valori.
Un conflitto – sta qui il vero errore di Putin – che ha creato e forgiato una nazione. Per gli ucraini questi quattro anni rappresentano una sorta di risorgimento. Come noi quasi due secoli fa combattono per l’indipendenza, la libertà e la democrazia. Mettono in conto anche di perdere pezzi di territorio ma non sono disposti a trattare su un futuro che non salvaguardi quei valori. Soprattutto, non possono accettare l’idea che lo Zar ha mutuato dal Metternich secondo cui l’Ucraina sarebbe solo un’espressione geografica. Ecco perché non si stancheranno mai. Costi quello che costi. Sono i valori che Putin non ha mai conosciuto, che Trump sacrifica al business e al pragmatismo esasperato (Afghanistan) e di cui mezza Europa affetta di populismo e sovranismo ha un pallido ricordo. Valori – rammentiamolo – per i quali anche noi duecento anni fa eravamo disposti a morire.
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