Guerra Ucraina
L’analista russo Petrov: “Per Kiev condizioni dure da accettare ma non miglioreranno in futuro”
«Assistiamo potenzialmente a una svolta più nelle trattative che nel conflitto». Il politologo e analista russo Nikolay Petrov, capo del Centro per la ricerca politico-geografica di Berlino e Senior Fellow presso Chatham House, esprime le sue considerazioni sull’apparente disponibilità al dialogo da parte del leader del Cremlino, che ha portato all’incontro di Istanbul tra la delegazione russa e quella ucraina. Un vertice che si è concluso senza aperture significative.
Petrov, ci troviamo a un punto di svolta?
«Direi che stiamo assistendo a una svolta più nei negoziati che nella guerra stessa o in qualsiasi prospettiva di una sua conclusione. La differenza fondamentale è che, mentre Trump e Putin hanno entrambi un obiettivo strategico – il primo uscire dalla guerra senza perdere la faccia e il secondo ottenere quella che considera una vittoria sull’Occidente – i leader della coalizione europea non perseguono obiettivi realistici. Le loro azioni sono guidate in gran parte dalla necessità di consolidare fragili posizioni politiche interne. L’idea di “Istanbul 2” come continuazione di “Istanbul 1”, piuttosto che un nuovo inizio, ha rappresentato, in un certo senso, una vittoria per Putin, costringendo Zelensky a considerare gli accordi della primavera 2022 come il punto di partenza dell’Ucraina. Una cosa che né lui, né i suoi sostenitori europei sono disposti a fare. Rifiutare quei termini, che includevano la neutralità dell’Ucraina e i limiti alle sue forze armate, consente al Cremlino di liquidare la proposta del cessate il fuoco di trenta giorni come infondata».
Per intraprendere un percorso di pace, la Russia richiede la totalità delle quattro regioni solo parzialmente occupate dalle sue truppe e che l’Ucraina non aderisca alla NATO. Ritiene che queste siano condizioni accettabili per Kyiv?
«La squadra di Zelensky non è pronta ad accettare ora queste condizioni dure e umilianti, ma la realtà è che esse non miglioreranno in futuro, ma potranno solo peggiorare. Minsk II era un accordo migliore per Kyiv di Istanbul I, e certamente molto migliore dell’attuale quadro di Istanbul II. La tragedia è che gli interessi dell’Ucraina e gli interessi politici di Zelensky e della sua cerchia si sono nettamente divisi. Spiegare al popolo ucraino perché prima ha respinto un piano di pace, poi un altro, solo per accettarne un terzo molto più punitivo – dopo aver pagato un prezzo enorme in termini di vite umane e distruzione – sarà politicamente impossibile per l’attuale leadership. Sia Kyiv che i leader europei sono ansiosi di combattere Putin: devono capire che la scelta ora è tra il male e il molto peggio. È possibile che lo comprendano ma, nel duro clima della politica populista, stanno semplicemente rimandando l’inevitabile decisione il più a lungo possibile».
L’Unione Europea e il Regno Unito, d’accordo con gli Stati Uniti, hanno chiesto un cessate il fuoco a partire da lunedì, Putin ha rifiutato. Varato il 17° pacchetto di sanzioni. Saranno efficaci?
«Putin è un dittatore sanguinario, ma non è uno sciocco. L’ultimatum che gli è stato presentato non era rivolto a lui, ma all’opinione pubblica occidentale e ucraina. Dopo tre anni, le sanzioni hanno perso ogni illusione di rappresentare un’arma ad azione rapida. L’introduzione o meno di queste misure avrà scarso impatto sull’andamento della guerra nel prossimo anno o due. E se la coalizione che sostiene l’Ucraina non riuscirà a schierare i 50.000 peacekeeper precedentemente promessi o a raccogliere i 40 miliardi di euro aggiuntivi necessari per compensare il calo del sostegno statunitense, allora – per quanto cupa possa essere la situazione – ci saranno poche speranze anche di mantenere l’attuale status quo sul campo di battaglia».
Trump, nonostante abbia cercato inizialmente di avvicinare Washington al Cremlino, sembra mostrare segni di impazienza. Come giudica la sua gestione del conflitto?
«Credo che Trump abbia deciso fin dall’inizio di ritirare gli Stati Uniti da una guerra che considera una lotta altrui, non in linea con gli interessi americani. Idealmente, vorrebbe mostrare il successo dei suoi sforzi di pace, ma se questi non producono risultati tangibili, se ne andrà senza esitazione. Allo stesso tempo, ha pochi incentivi a inimicarsi il Cremlino, soprattutto date le sue più ampie priorità geopolitiche, inclusa la competizione con la Cina. Allo stesso modo, Mosca non vede alcun vantaggio nel provocare Trump. È disposto a giocare in una certa misura, ma non a scapito dei suoi interessi fondamentali in Ucraina. Finora, questo gioco – in cui l’Ucraina è trattata come merce di scambio – sembra funzionare per entrambe le parti».
Il Cancelliere tedesco Merz considera l’apparente disponibilità al dialogo di Putin un passo positivo, ma non sufficiente. È d’accordo?
«Da parte del Cancelliere, questo è un gesto coraggioso in una partita persa. Putin è sempre stato aperto al “dialogo”, purché ciò significhi che l’Ucraina e l’Occidente accettino di fatto la sconfitta, un punto che ha ribadito più volte. Non vedo reali concessioni da parte del Cremlino, né avrebbe senso che ne facessero ora, in un momento in cui Mosca – non senza ragione – crede di avere la meglio, mentre Kyiv si sta indebolendo».
Come pensa che potrebbe evolversi la situazione?
«È improbabile che il prossimo incontro a Istanbul porti a qualche svolta: si limiterà a sottolineare che né la parte russa né l’Ucraina e i suoi alleati europei sono pronti a fare marcia indietro sulle loro posizioni dichiarate. Gli Stati Uniti sembrano pronti a fare un passo indietro dal tavolo dei negoziati e la guerra di logoramento è, purtroppo, destinata a continuare. La vera domanda è: per quanto tempo?»
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Guerra Ucraina
Ucraina, raid prima di un nuovo scambio
Colpite Kharkiv e Odessa. Oggi il rientro di mille soldati feriti
Guerra Ucraina
Don Stefano Caprio: “Nell’URSS c’era più libertà che nella Russia di Putin. Leone XIV? Più diplomatico, Francesco bloccato per eccesso di protagonismo”
Vladimir Medinsky, capo della delegazione russa nei negoziati di Istanbul con l’Ucraina, ha detto al Wall Street Journal che Mosca vuole la pace. Il problema però è che per il consigliere de Cremlino, se Kyiv “continuerà a lasciarsi guidare dagli interessi nazionali altrui, allora saremo semplicemente costretti a reagire”. E in questa “reazione” da parte russa, c’è anche la conquista di altri territori. Uno, in particolare, sembra essere quello di Dnipro, dove le truppe russe iniziano a premere con sempre maggiore forza. E mentre la Russia ha restituito 1.212 corpi di militari ucraini caduti in guerra (in attesa del nuovo scambio di prigionieri feriti che avverrà oggi), i raid contro le città del Paese invaso non si fermano. Ieri, altre tre vittime si sono registrate a Kharkiv, colpita da una nuova pioggia di droni.
Attacchi che per Volodymyr Zelensky confermano che “la pressione attuale non è sufficiente” a fermare Mosca. E le speranze di un negoziato per una pace “giusta” sembrano ormai appese a un filo sempre più sottile. Donald Trump ci spera, altri Stati si muovono. E tra le forze globali coinvolte nel tentativo di dialogo c’è anche la Santa Sede. Un attore che ha cercato in ogni modo di fare da mediatore, soprattutto sul lato umanitario E che adesso, con Papa Leone XIV, cerca di rafforzare il suo impegno diplomatico. E per don Stefano Caprio, professore di storia e cultura russa al Pontificio Istituto Orientale di Roma, la telefonata tra Leone e Vladimir Putin è un primo segnale da non sottovalutare.
Professore, quanto è reale l’interesse di Putin per le parole e le mosse del pontefice?
«In Russia si guarda da sempre con attenzione al Vaticano, perché Mosca vuole essere la ‘Terza Roma’. Ai tempi sovietici, il papato era il primo nemico, quindi quello a cui guardare più attentamente… e Putin ha imparato da Josip Stalin».
E di Unione Sovietica lei ne sa qualcosa. Com’è stato il suo periodo di missione in Russia?
«Sono andato lì per la prima volta nel 1982, era ancora vivo Leonid Breznev, e ho lavorato stabilmente in Russia dal 1987 al 2002. Ho visto tutti i passaggi di epoca, ma devo dire che in Unione Sovietica c’era più libertà che nella Russia di Putin. Mentre il decennio di Boris Eltsin è stato il classico ‘periodo di passaggio’ della storia russa, dove tutto si è rimesso in gioco, ed è stato veramente emozionante».
Tornando all’attualità, Leone è molto diverso da Francesco. Qual è la loro differenza nel rapporto con la Russia?
«La differenza principale non sta tanto nella personalità, comunque abbastanza evidente, ma nell’uso della diplomazia che ha permesso una telefonata diretta con Putin. A Francesco non era riuscito per il suo eccesso di protagonismo, di certo non gradito al Cremlino».
Dopo che Mosca ha bocciato il negoziato proposto dalla Santa Sede, cosa spera di ottenere Putin dal Vaticano?
«La bocciatura non è stata definitiva ma solo interlocutoria, e le motivazioni di Sergei Lavrov sono indicative. Innanzitutto, ha parlato di sede inopportuna per due Paesi ortodossi, riconoscendo di fatto all’Ucraina lo status di Paese. Poi ora dialogano a Istanbul, sede del patriarcato di Costantinopoli. Ma vista l’inconsistenza delle trattative, si potrebbe davvero tornare alla “prima Roma”, più capace di dialogare con Mosca rispetto alle altre Chiese e Paesi ortodossi».
Quali sono le “armi” di Leone nei rapporti tra i due Stati in guerra?
«Un’arma fondamentale, dal punto di vista della Russia, sono le motivazioni. Mosca è entrata in guerra dicendo di ‘difendere gli autentici valori morali e spirituali’ contro il degradato Occidente e la ‘nazificata’ Ucraina. La Santa Sede è l’interlocutore privilegiato per il dialogo sui “valori”, e papa Leone sembra più affidabile in questo senso. Rimangono inoltre le interlocuzioni per le azioni umanitarie, che non solo un’esclusiva del Vaticano, ma che ha grande importanza in questo campo».
Pensa che sia possibile un viaggio del Papa a Kyiv o a Mosca?
«Non è una questione attuale, ma certamente si riproporrà dopo un eventuale accordo di pace, e potrebbe essere un suggello molto simbolico di una situazione per ora ancora troppo instabile».
Leone tenterà un dialogo con il Patriarcato di Mosca, o prediligerà i rapporti con quello di Costantinopoli?
«La Chiesa cattolica è quella che ha il rapporto migliore con la Chiesa russa, se non si considerano quelle di Antiochia e di Serbia, anch’essi comunque ambigui. Le altre Chiese legate a Costantinopoli non dialogano con Mosca, e Roma può essere invece un centro di confronto veramente “ecumenico”. Inoltre, il patriarca Kirill desidera certamente rinnovare l’incontro con il papa, dopo quello con Francesco nel 2016, tanto più con Leone, americano del nord e del sud. Magari proporrà di nuovo una sede neutra e simbolica come Cuba, o in Perù».
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Guerra Ucraina
Tajani, Adam e i bimbi di Gaza: lo stesso coraggio non c’è stato con i piccoli ucraini ed ebrei
Il grande cuore italiano è talmente sensibile da dare segni di aritmia e discontinuità. I fatti: l’amministrazione USA sta cacciando tutti coloro che sbarcano come turisti e poi non se ne vanno più. Nessuna novità. Questa volta però Trump aggiunge una minaccia: coloro che non verranno riaccolti nel paese d’origine saranno deportati nella base militare di Guantanamo Bay a Cuba.
I due italiani stanno rientrando
Sarebbero circa diecimila, secondo il Washington Post, fra cui alcuni italiani che poi si scoprirà essere due, sani e salvi: nulla di apocalittico tranne il valore aggiunto emotivo evocato dal nome di Guantanamo, nata come prigione per sospetti terroristi voluta dal Presidente George W. Bush dopo l’attacco di al-Quaeda dell’11 settembre 2001. Da allora il solo nome evoca immagini di tute arancioni, la tortura detta “waterboarding”, le catene, la negazione del diritto di difendersi. Guantanamo fa paura anche se tutti i vecchi prigionieri sono stati liberati (o deceduti). La novità ottima e prevedibile (nessun italiano andrà a Guantanamo) è certamente dovuta alla tempestività del nostro ministro degli Esteri. Infatti i due italiani che risiedevano abusivamente negli Stati Uniti sono già in aereo per rientrare in Italia.
Il pensiero apocalittico di Conte
Tutto è andato bene prima ancora che si svolgesse l’annunciata telefonata fra il Segretario di Stato americano Marco Rubio e il nostro ministro degli Esteri. Ma prima si era già alzata la confusa e agitata voce di Giuseppe Conte e purtroppo anche quella in genere ragionevole di Sandro Gozi, capogruppo democratico a Bruxelles che ha ceduto alla tentazione di dire una sciocchezza affermando che i nostri connazionali sarebbero stati spediti a Guantanamo in tuta e catene senza che il nostro governo ne sapesse niente. Bene ha dunque fatto il ministro Antonio Tajani che ha disinnescato le opportunistiche intimidazioni di Conte annunciando prima di aver prenotato un appuntamento telefonico col segretario di Stato Marco Rubio e poi che il caso era già stato risolto, mettendo ancora una volta a nudo la fragilità di una opposizione prigioniera del suo stesso pensiero apocalittico. I repulisti americani sono del resto sempre avvenuti: l’amministrazione Obama scoprì a New York una colonia clandestina di ragazzi inglesi arrivati come turisti e poi spariti nella metropoli. Nulla di tragico in quel caso, come in questo dei due italiani. Il nostro ministro degli Esteri ha fatto comunque una eccellente figura.
Adam e i bimbi di Gaza in Italia
Anche se poi lo stesso ministro ha annunciato all’assemblea di Confcommercio che il bambino palestinese Adam, ferito e adottato dal governo italiano, era in volo per essere ricoverato all’ospedale Niguarda di Milano e curato per le fratture subite durante i bombardamenti. Con lui, su tre aerei italiani, erano in viaggio altri ottanta palestinesi fra cui 17 bambini e i loro familiari destinati in diversi ospedali italiani.
È certamente un’ottima notizia perché dove i bambini sono vittime delle guerre, là si impone un’etica diversa da quella della Seconda guerra mondiale, quando gli stessi morivano a centinaia di migliaia in Inghilterra, in Russia, in Germania, in Giappone. Per pura fortuna sono sopravvissuto al bombardamento del quartiere San Lorenzo di Roma del 19 luglio del 1943, ma i miei compagni rimasti sotto le macerie non fecero notizia. I bambini feriti e mutilati o sepolti vivi non hanno bandiera. Ed è sempre un atto morale soccorrerli e salvarli.
La domanda di riserva per Tajani
Bravo, dunque, governo italiano e il ministro Tajani, con una domanda di riserva. Cosa ha fatto questo stesso governo per offrire aerei, ospedali da campo e medici ai bambini ebrei del pogrom del 7 ottobre? E le centinaia di migliaia di bambini ucraini selvaggiamente strappati alle loro madri per essere ricollocati in campi di russificazione coatta per cui la corte dell’Aja ha emesso un mandato di cattura per Vladimir Putin? Abbiamo osato soccorrere rischiando, o abbiamo lasciato fare pur deplorando? Ottenere garanzie su Guantanamo richiede impegno encomiabile e offrire protezione fa rischiare solo un eccesso di applausi. Ma che cosa abbiam fatto per i bambini ucraini e per i bambini ebrei? Non sempre è facile e non sempre basta la diplomazia. Ma l’orrore e la difesa dei bambini in guerra devono essere coraggiosi e rischiosi perché riguardano l’etica e non solo la politica.
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