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Guerra Ucraina

La Germania spinge Zelensky: “Nostri missili per colpire in Russia”. Tra Putin e il sogno Yalta-bis c’è l’Europa del cancelliere

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“Il rifiuto russo di trattare per un cessate il fuoco e per una tregua, avrà conseguenze. Per questo noi autorizziamo l’Ucraina a colpire la Russia al suo interno con i nostri missili ed anzi ne produrremo insieme alle forze armate ucraine”. Mai come ieri le parole dei leader hanno raggiunto toni così inclini all’inizio di una vera guerra. Anche Donald Trump rilascia dichiarazioni sferzanti dirette a Vladimir Putin, diffidandolo dal commettere errori catastrofici.

Putin tra Trump e Merz

A Berlino il cancelliere tedesco Merz ha annunciato, alla fine dei colloqui con l’ucraino Zelensky, che la Germania non soltanto autorizza l’uso di missili a lunga gittata in terrario russo, ma che li produrrà insieme all’Ucraina. In più, concede un primo finanziamento di cinque miliardi di euro a Kyiv per la produzione industriale necessaria per una guerra di lunga durata. Zelensky era arrivato a Berlino dopo aver dichiarato: “Non chiedo armi ma finanziamenti: le armi sappiamo fabbricarle da soli perché abbiamo industrie formidabili e tecnici geniali per produrre droni d’attacco, intercettatori e missili da crociera. Ci occorrono solo finanzianti per affrontare 50mila russi all’offensiva su Sumy”.

Brigata tedesca in Lituania pronta al combattimento

Friedrich Merz lo aspettava per il terzo colloquio in due settimane. Il cancelliere, molto più alto di Zelensky, indossava un completo blu e il Presidente ucraino la sua consueta tenuta nera. Merz si era già attirato i fulmini dal Cremlino con la minaccia di “far sparire la Germania dalla faccia della Terra insieme all’Ucraina”. Dall’altra parte dell’oceano il Presidente americano rilasciava una dichiarazione in cui dice “Hello, Putin, se hai detto che intendi sfidare l’America, stai facendo un fatale errore perché l’America non inizia mai le guerre ma le termina”. Due giorni prima Trump aveva detto a Putin di avere personalmente impedito che in Russia accadessero cose molto brutte, “very, very bad things” alludendo a una resa di conti al Cremlino. Tutte le cancellerie europee hanno registrato ieri una netta escalation delle parole e dei gesti, dopo la decisione del Cancelliere tedesco di spedire – fatto inaudito dopo la Seconda guerra mondiale – una brigata in Lituania pronta al combattimento.

Sanzioni decisive secondo Zelensky

La Germania ha deciso di riarmarsi ed ha assunto la leadership militare europea con francesi e inglesi già attivamente in campo in Ucraina al fianco di Zelensky. Il Presidente ucraino chiede soldi e non armi. Quanto? Trenta miliardi l’anno, un terzo di quanto finora gli Usa hanno speso inviando le armi per le quali Donald Trump ha poi presentato un conto esosissimo. “In una guerra d’attrito, la vittoria in genere va a chi ha la base industriale più produttiva”, dice Seth J. Jones, un esperto della difesa americana, citato dal New York Times. “E una guerra di attrito – dice – la vince chi ha più alleati: dalla sua parte l’Ucraina ha i Paesi occidentali e in parte gli Stati Uniti. Dall’altra parte i russi possono contare sulla Cina, l’Iran e la Corea del Nord. Lo scontro che avviene oggi, dice il presidente ucraino, non riguarda soltanto le armi ma il morale degli eserciti. I russi fino a ieri erano molto entusiasti per quella che sembrava l’imminente fine delle sanzioni. Ed è proprio per questo, dice Zelensky, è necessario che le sanzioni contro i russi aumentino perché la loro pressione ha il suo effetto sul campo di battaglia dove i soldati combattono bene soltanto se hanno la prospettiva di vincere. Oggi i russi sono isolati ed è bene che sia così”.

Missili tedeschi per colpire in Russia

Merz ha risposto con le stesse parole che aveva già usato in Parlamento dicendo che “in questo momento storico l’Europa è tenuta ad essere unita come mai prima d’ora. Il rifiuto della parte russa ad iniziare una trattativa e il rifiuto di cessar il fuoco, avrà conseguenze. Noi seguitiamo a sostenere militarmente l’Ucraina e anzi aumenteremo lo sforzo per resistere all’aggressione russa. Con loro produrremo missili a lunga gittata per colpire la Russia al suo interno senza alcuna restrizione”. Ma la guerra è entrata in una fase nuova: Putin ha chiarito in maniera quasi brutale, (dando a Donald Trump dell’imbroglione per essersi spacciato come mediatore) e di non avere mai avuto la minima intenzione di trattare per una tregua e nemmeno per un cessate il fuoco.

Tra Putin e il sogno Yalta-bis c’è l’Europa

Putin ha ripetuto che i suoi colloqui con gli americani puntavano a un nuovo assetto mondiale, un secondo patto di Yalta con cui assegnare zone di influenza alle grandi potenze affinché abbiano mano libera nel loro orto di competenza: se Trump può avanzare pretese su Groenlandia, Canada e Panama, Putin può avere mano libera su tutto l’ex impero sovietico. Il presidente americano ha usato un tono aggressivo che non gli è consueto quando si rivolge a Putin minacciando rappresaglie per gli ultimi bombardamenti russi in Ucraina, ma è sostanzialmente d’accordo con l’idea di Putin nel riconoscere mano libera alle tre superpotenze del pianeta e cioè gli Stati Uniti, la Cina e la Russia. E l’Europa? Finché non è comparso sulla scena un nuovo cancelliere tedesco pronto ad assumere il cromando o almeno la supremazia in Europa, la tripartizione aveva senso a causa dell’insignificanza politica e militare dell’Unione Europea.

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Guerra Ucraina

Ucraina, raid prima di un nuovo scambio

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Colpite Kharkiv e Odessa. Oggi il rientro di mille soldati feriti

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Don Stefano Caprio: “Nell’URSS c’era più libertà che nella Russia di Putin. Leone XIV? Più diplomatico, Francesco bloccato per eccesso di protagonismo”

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Vladimir Medinsky, capo della delegazione russa nei negoziati di Istanbul con l’Ucraina, ha detto al Wall Street Journal che Mosca vuole la pace. Il problema però è che per il consigliere de Cremlino, se Kyiv “continuerà a lasciarsi guidare dagli interessi nazionali altrui, allora saremo semplicemente costretti a reagire”. E in questa “reazione” da parte russa, c’è anche la conquista di altri territori. Uno, in particolare, sembra essere quello di Dnipro, dove le truppe russe iniziano a premere con sempre maggiore forza. E mentre la Russia ha restituito 1.212 corpi di militari ucraini caduti in guerra (in attesa del nuovo scambio di prigionieri feriti che avverrà oggi), i raid contro le città del Paese invaso non si fermano. Ieri, altre tre vittime si sono registrate a Kharkiv, colpita da una nuova pioggia di droni.

Attacchi che per Volodymyr Zelensky confermano che “la pressione attuale non è sufficiente” a fermare Mosca. E le speranze di un negoziato per una pace “giusta” sembrano ormai appese a un filo sempre più sottile. Donald Trump ci spera, altri Stati si muovono. E tra le forze globali coinvolte nel tentativo di dialogo c’è anche la Santa Sede. Un attore che ha cercato in ogni modo di fare da mediatore, soprattutto sul lato umanitario E che adesso, con Papa Leone XIV, cerca di rafforzare il suo impegno diplomatico. E per don Stefano Caprio, professore di storia e cultura russa al Pontificio Istituto Orientale di Roma, la telefonata tra Leone e Vladimir Putin è un primo segnale da non sottovalutare.

Professore, quanto è reale l’interesse di Putin per le parole e le mosse del pontefice?
«In Russia si guarda da sempre con attenzione al Vaticano, perché Mosca vuole essere la ‘Terza Roma’. Ai tempi sovietici, il papato era il primo nemico, quindi quello a cui guardare più attentamente… e Putin ha imparato da Josip Stalin».

E di Unione Sovietica lei ne sa qualcosa. Com’è stato il suo periodo di missione in Russia?
«Sono andato lì per la prima volta nel 1982, era ancora vivo Leonid Breznev, e ho lavorato stabilmente in Russia dal 1987 al 2002. Ho visto tutti i passaggi di epoca, ma devo dire che in Unione Sovietica c’era più libertà che nella Russia di Putin. Mentre il decennio di Boris Eltsin è stato il classico ‘periodo di passaggio’ della storia russa, dove tutto si è rimesso in gioco, ed è stato veramente emozionante».

Tornando all’attualità, Leone è molto diverso da Francesco. Qual è la loro differenza nel rapporto con la Russia?
«La differenza principale non sta tanto nella personalità, comunque abbastanza evidente, ma nell’uso della diplomazia che ha permesso una telefonata diretta con Putin. A Francesco non era riuscito per il suo eccesso di protagonismo, di certo non gradito al Cremlino».

Dopo che Mosca ha bocciato il negoziato proposto dalla Santa Sede, cosa spera di ottenere Putin dal Vaticano?
«La bocciatura non è stata definitiva ma solo interlocutoria, e le motivazioni di Sergei Lavrov sono indicative. Innanzitutto, ha parlato di sede inopportuna per due Paesi ortodossi, riconoscendo di fatto all’Ucraina lo status di Paese. Poi ora dialogano a Istanbul, sede del patriarcato di Costantinopoli. Ma vista l’inconsistenza delle trattative, si potrebbe davvero tornare alla “prima Roma”, più capace di dialogare con Mosca rispetto alle altre Chiese e Paesi ortodossi».

Quali sono le “armi” di Leone nei rapporti tra i due Stati in guerra?
«Un’arma fondamentale, dal punto di vista della Russia, sono le motivazioni. Mosca è entrata in guerra dicendo di ‘difendere gli autentici valori morali e spirituali’ contro il degradato Occidente e la ‘nazificata’ Ucraina. La Santa Sede è l’interlocutore privilegiato per il dialogo sui “valori”, e papa Leone sembra più affidabile in questo senso. Rimangono inoltre le interlocuzioni per le azioni umanitarie, che non solo un’esclusiva del Vaticano, ma che ha grande importanza in questo campo».

Pensa che sia possibile un viaggio del Papa a Kyiv o a Mosca?
«Non è una questione attuale, ma certamente si riproporrà dopo un eventuale accordo di pace, e potrebbe essere un suggello molto simbolico di una situazione per ora ancora troppo instabile».

Leone tenterà un dialogo con il Patriarcato di Mosca, o prediligerà i rapporti con quello di Costantinopoli?
«La Chiesa cattolica è quella che ha il rapporto migliore con la Chiesa russa, se non si considerano quelle di Antiochia e di Serbia, anch’essi comunque ambigui. Le altre Chiese legate a Costantinopoli non dialogano con Mosca, e Roma può essere invece un centro di confronto veramente “ecumenico”. Inoltre, il patriarca Kirill desidera certamente rinnovare l’incontro con il papa, dopo quello con Francesco nel 2016, tanto più con Leone, americano del nord e del sud. Magari proporrà di nuovo una sede neutra e simbolica come Cuba, o in Perù».

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Guerra Ucraina

Tajani, Adam e i bimbi di Gaza: lo stesso coraggio non c’è stato con i piccoli ucraini ed ebrei

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Il grande cuore italiano è talmente sensibile da dare segni di aritmia e discontinuità. I fatti: l’amministrazione USA sta cacciando tutti coloro che sbarcano come turisti e poi non se ne vanno più. Nessuna novità. Questa volta però Trump aggiunge una minaccia: coloro che non verranno riaccolti nel paese d’origine saranno deportati nella base militare di Guantanamo Bay a Cuba.

I due italiani stanno rientrando

Sarebbero circa diecimila, secondo il Washington Post, fra cui alcuni italiani che poi si scoprirà essere due, sani e salvi: nulla di apocalittico tranne il valore aggiunto emotivo evocato dal nome di Guantanamo, nata come prigione per sospetti terroristi voluta dal Presidente George W. Bush dopo l’attacco di al-Quaeda dell’11 settembre 2001. Da allora il solo nome evoca immagini di tute arancioni, la tortura detta “waterboarding”, le catene, la negazione del diritto di difendersi. Guantanamo fa paura anche se tutti i vecchi prigionieri sono stati liberati (o deceduti). La novità ottima e prevedibile (nessun italiano andrà a Guantanamo) è certamente dovuta alla tempestività del nostro ministro degli Esteri. Infatti i due italiani che risiedevano abusivamente negli Stati Uniti sono già in aereo per rientrare in Italia.

Il pensiero apocalittico di Conte

Tutto è andato bene prima ancora che si svolgesse l’annunciata telefonata fra il Segretario di Stato americano Marco Rubio e il nostro ministro degli Esteri. Ma prima si era già alzata la confusa e agitata voce di Giuseppe Conte e purtroppo anche quella in genere ragionevole di Sandro Gozi, capogruppo democratico a Bruxelles che ha ceduto alla tentazione di dire una sciocchezza affermando che i nostri connazionali sarebbero stati spediti a Guantanamo in tuta e catene senza che il nostro governo ne sapesse niente. Bene ha dunque fatto il ministro Antonio Tajani che ha disinnescato le opportunistiche intimidazioni di Conte annunciando prima di aver prenotato un appuntamento telefonico col segretario di Stato Marco Rubio e poi che il caso era già stato risolto, mettendo ancora una volta a nudo la fragilità di una opposizione prigioniera del suo stesso pensiero apocalittico. I repulisti americani sono del resto sempre avvenuti: l’amministrazione Obama scoprì a New York una colonia clandestina di ragazzi inglesi arrivati come turisti e poi spariti nella metropoli. Nulla di tragico in quel caso, come in questo dei due italiani. Il nostro ministro degli Esteri ha fatto comunque una eccellente figura.

Adam e i bimbi di Gaza in Italia

Anche se poi lo stesso ministro ha annunciato all’assemblea di Confcommercio che il bambino palestinese Adam, ferito e adottato dal governo italiano, era in volo per essere ricoverato all’ospedale Niguarda di Milano e curato per le fratture subite durante i bombardamenti. Con lui, su tre aerei italiani, erano in viaggio altri ottanta palestinesi fra cui 17 bambini e i loro familiari destinati in diversi ospedali italiani.
È certamente un’ottima notizia perché dove i bambini sono vittime delle guerre, là si impone un’etica diversa da quella della Seconda guerra mondiale, quando gli stessi morivano a centinaia di migliaia in Inghilterra, in Russia, in Germania, in Giappone. Per pura fortuna sono sopravvissuto al bombardamento del quartiere San Lorenzo di Roma del 19 luglio del 1943, ma i miei compagni rimasti sotto le macerie non fecero notizia. I bambini feriti e mutilati o sepolti vivi non hanno bandiera. Ed è sempre un atto morale soccorrerli e salvarli.

La domanda di riserva per Tajani

Bravo, dunque, governo italiano e il ministro Tajani, con una domanda di riserva. Cosa ha fatto questo stesso governo per offrire aerei, ospedali da campo e medici ai bambini ebrei del pogrom del 7 ottobre? E le centinaia di migliaia di bambini ucraini selvaggiamente strappati alle loro madri per essere ricollocati in campi di russificazione coatta per cui la corte dell’Aja ha emesso un mandato di cattura per Vladimir Putin? Abbiamo osato soccorrere rischiando, o abbiamo lasciato fare pur deplorando? Ottenere garanzie su Guantanamo richiede impegno encomiabile e offrire protezione fa rischiare solo un eccesso di applausi. Ma che cosa abbiam fatto per i bambini ucraini e per i bambini ebrei? Non sempre è facile e non sempre basta la diplomazia. Ma l’orrore e la difesa dei bambini in guerra devono essere coraggiosi e rischiosi perché riguardano l’etica e non solo la politica.

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