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Gaza, l’Idf recupera i cadaveri di due ostaggi e scatena l’inferno sulla Striscia

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Passano i mesi, ma non accenna a diminuire l’orrore nella Striscia di Gaza. Con un’operazione portata avanti dall’esercito israeliano (IDF) e dai servizi segreti dello Shin Bet, sono state recuperate a Khan Yunis le salme di due ostaggi con passaporto statunitense, Gadi Haggai e Jidih Weinstein, finiti nelle mani delle Brigate Mujahideen, un gruppo armato relativamente piccolo ma alleato di Hamas. A darne notizia è stato il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, che, scosso e visibilmente furioso, ha dichiarato che lo Stato ebraico “non si fermerà finché non riporterà a casa tutti i nostri ostaggi, sia i vivi che i morti”.

Al momento, nella Striscia di Gaza si contano ancora 56 ostaggi, 20 dei quali sarebbero vivi. Per riportarli a casa, anziché cercare di riaprire le trattative di pace, il leader israeliano ha ordinato di ampliare la portata e l’entità delle operazioni militari.

Gaza, l’Idf recupera i cadaveri di due ostaggi. Furia di Netanyahu che ordina il bombardamento a tappeto della Striscia

Gli effetti dell’ordine di Netanyahu si sono manifestati subito, con l’ennesima ondata di raid che ha portato ulteriore devastazione e morte nella Striscia. Con un primo attacco, secondo quanto riferisce l’agenzia di stampa palestinese Shahab, le bombe israeliane hanno colpito una tenda ad al-Mawasi, a ovest di Khan Yunis, provocando la morte di sei persone.

Almeno altre 23 vittime sono state registrate, secondo la Protezione civile palestinese, in ulteriori attacchi che hanno preso di mira Deir el-Balah e Gaza City. Proprio qui, secondo fonti mediche, un drone israeliano avrebbe colpito l’ospedale al-Ahli, uccidendo quattro persone, tra cui tre giornalisti.

Attacchi brutali e “indiscriminati” contro i civili, secondo quanto denuncia l’agenzia Shahab, che hanno spinto gli autisti addetti al trasporto degli aiuti umanitari nella Striscia a proclamare uno sciopero immediato.

Disastro umanitario

Gli stessi autisti, già finiti nei giorni scorsi nel mirino dell’IDF in presunti “incidenti” che hanno causato vittime, hanno fatto sapere che non riprenderanno le operazioni finché l’esercito israeliano non garantirà condizioni di sicurezza adeguate.

In questo contesto, la Gaza Humanitarian Foundation (GHF), che nella giornata di ieri aveva annunciato la chiusura temporanea – per 24 ore – dei propri centri di distribuzione degli aiuti nella Striscia, non ha ancora ripreso le attività.

Una decisione spiegata, tra le polemiche, con la necessità di effettuare ulteriori “lavori di manutenzione e riparazione” alle strutture, al fine di garantire la distribuzione di cibo e medicinali “in sicurezza”.

Una spiegazione che non ha convinto Tom Fletcher, sottosegretario generale per gli Affari umanitari e coordinatore degli aiuti di emergenza delle Nazioni Unite, secondo cui “il mondo assiste, giorno dopo giorno, a scene orribili di palestinesi raggiunti da colpi d’arma da fuoco, feriti o uccisi a Gaza, mentre cercano semplicemente di mangiare. Questo è il risultato di una serie di scelte deliberate che hanno privato sistematicamente due milioni di persone delle cose essenziali di cui hanno bisogno per sopravvivere”.

Per questo motivo, il funzionario ONU ha rivolto un appello a Netanyahu affinché consenta l’ingresso e la distribuzione degli aiuti umanitari, rinnovando anche l’invito – rivolto sia al governo israeliano che ad Hamas – a riprendere i negoziati di pace per porre fine al conflitto.

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Le proteste anti-Trump dilagano in tutti gli Stati Uniti: arresti, coprifuochi e scontri con la polizia proseguono per il settimo giorno consecutivo

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Le proteste contro le politiche migratorie del presidente Donald Trump continuano ad allargarsi a macchia d’olio negli Stati Uniti, mentre cresce la tensione tra manifestanti e forze dell’ordine. Migliaia di persone sono scese in piazza la scorsa notte in numerose città, da Los Angeles a New York, per protestare contro le recenti operazioni dell’agenzia federale Ice e l’uso crescente della forza da parte dell’amministrazione.

Le mobilitazioni, iniziate venerdì scorso a Los Angeles, si sono intensificate dopo che la Casa Bianca ha disposto la mobilitazione della Guardia nazionale e dei Marine in California e imposto il coprifuoco in diverse aree urbane. La mossa ha innescato nuove manifestazioni in tutto il Paese e alimentato un clima di crescente scontro istituzionale.

Le proteste anti-Trump dilagano in tutti gli Stati Uniti: arresti, coprifuochi e scontri con la polizia proseguono per il settimo giorno consecutivo

A Seattle, nello Stato di Washington, otto persone sono state arrestate durante una manifestazione che inizialmente si era svolta in modo pacifico. La situazione è degenerata in serata, con lanci di oggetti contro la polizia e l’incendio di un cassonetto. A Spokane, sempre nello Stato di Washington, è stato dichiarato lo stato d’emergenza: oltre 30 arresti e l’impiego di fumogeni per disperdere i manifestanti.

A Las Vegas, la polizia ha dichiarato “assemblea illegale” un presidio nei pressi del tribunale federale e ha ordinato lo sgombero dell’area, minacciando arresti. A New York, circa 200 persone si sono radunate a Manhattan: anche qui si sono registrati alcuni fermi.

In Texas la Guardia nazionale è stata mobilitata preventivamente in vista di nuovi cortei. Il sindaco di Houston, John Whitmire, ha lanciato un appello alla calma. Altri cortei si sono svolti anche in Saint Louis, Denver, San Francisco, Chicago, Dallas, Filadelfia, Indianapolis, Milwaukee, Boston, Atlanta e Washington DC.

La linea dura dell’amministrazione

A Los Angeles, le autorità hanno dichiarato non autorizzata una manifestazione davanti al municipio e sono stati eseguiti tra i 20 e i 30 arresti, secondo quanto riferito dalla CNN. I disordini sarebbero scoppiati dopo una serie di retate dell’Ice, che nei giorni scorsi ha fermato decine di persone, anche nei luoghi di lavoro.

Il segretario alla Difesa, Pete Hegseth, ha difeso la scelta del presidente Trump di mobilitare le forze armate. Parlando davanti al Congresso, ha definito l’intervento “necessario per creare un precedente” da replicare in altri Stati. “Si tratta anche di prevenzione – ha detto – se altrove si dovessero verificare rivolte o minacce alle forze dell’ordine, avremo la capacità di intervenire rapidamente”.

Non sono mancate critiche al governatore democratico della California, Gavin Newsom, accusato di “reticenza” nel cooperare con le forze federali. Anche la procuratrice generale Pam Bondi ha dichiarato che l’amministrazione “non ha paura di andare oltre”, lasciando intendere che il ricorso alla Legge sull’insurrezione – che autorizza l’impiego dell’esercito per sedare disordini interni – resta un’opzione concreta.

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Nel mondo ci sono 122 milioni di sfollati da guerre, persecuzioni e violenze. Le Nazioni Unite lanciano l’allarme per l’instabilità globale

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Sono oltre 122 milioni le persone costrette a fuggire da guerre, persecuzioni e violenze nel mondo. A certificarlo è l’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, che oggi ha pubblicato il suo rapporto annuale Global Trends. Il dato – aggiornato ad aprile 2025 – rappresenta l’ennesimo record in una tendenza ininterrotta da dieci anni.

“Alla fine di aprile 2025 c’erano 122,1 milioni di persone costrette a fuggire dalle loro case, contro i 120 milioni dello scorso anno”, si legge nel rapporto. A pesare maggiormente, come evidenzia l’Onu, sono i conflitti in Sudan, Myanmar e Ucraina, ma anche l’incapacità della politica internazionale di fermare i combattimenti.

Secondo l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi, “viviamo in un periodo di intensa volatilità nelle relazioni internazionali, con la guerra moderna che crea un panorama fragile e straziante, segnato da un’acuta sofferenza umana”. Grandi ha ribadito l’urgenza di “raddoppiare gli sforzi diplomatici per raggiungere la pace” e garantire soluzioni durature per chi è costretto a fuggire.

Sudan, la crisi peggiore al mondo

Tra i numeri più allarmanti spiccano quelli del Sudan, che con 14,3 milioni di rifugiati e sfollati interni supera la Siria (13,5 milioni) e diventa la maggiore crisi umanitaria al mondo. Seguono l’Afghanistan con 10,3 milioni e l’Ucraina con 8,8 milioni.

In totale, 73,5 milioni di persone sono oggi sfollate all’interno del proprio Paese, con un aumento di 6,3 milioni in un solo anno. I rifugiati internazionali – coloro che hanno attraversato un confine – sono invece 42,7 milioni.

I Paesi poveri sopportano il peso maggiore

Il rapporto sfata anche alcuni luoghi comuni: il 67% dei rifugiati rimane nei Paesi confinanti, e il 73% è ospitato da nazioni a basso e medio reddito. Un dato impressionante se si considera che i Paesi a basso reddito rappresentano appena il 9% della popolazione mondiale e lo 0,6% del PIL globale, ma accolgono il 19% dei rifugiati.

Tra i Paesi più impegnati ci sono Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Sudan e Uganda, che pur avendo risorse limitate offrono rifugio a milioni di persone in fuga.

Inoltre, il 60% delle persone costrette a fuggire non lascia mai il proprio Paese, rimanendo sfollato entro i confini nazionali, spesso in condizioni critiche.

Fondi umanitari fermi al 2015

Se i numeri crescono, i finanziamenti umanitari non seguono lo stesso ritmo. Secondo l’Unhcr, i fondi disponibili nel 2025 sono pari a quelli del 2015, mentre le emergenze si sono moltiplicate. “Una situazione insostenibile – avverte l’agenzia – che lascia le donne senza protezione, i bambini senza scuole, intere comunità senza acqua e cibo”.

Piccoli segnali di speranza

Nonostante il quadro drammatico, nel 2024 si è registrato un dato positivo: 9,8 milioni di persone sono tornate a casa, tra cui 1,6 milioni di rifugiati (il numero più alto degli ultimi vent’anni) e 8,2 milioni di sfollati interni. Tuttavia, molti di questi ritorni sono avvenuti in condizioni di forte instabilità politica e sociale, come accaduto in Afghanistan, dove centinaia di migliaia di persone sono rientrate in condizioni disperate.

“Abbiamo visto barlumi di speranza – ha dichiarato Filippo Grandi – quasi due milioni di siriani sono riusciti a tornare a casa. Ma ora serve un aiuto concreto per permettere loro di ricostruirsi una vita”.

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Guerra Ucraina

Ucraina, raid prima di un nuovo scambio

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Colpite Kharkiv e Odessa. Oggi il rientro di mille soldati feriti

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