Mondo
Gaza continua a bruciare. Netanyahu insiste con l’offensiva terrestre scatenando la protesta della Croce Rossa: “La Striscia è peggio dell’inferno”
Con i negoziati di pace ancora in stallo, nella Striscia di Gaza continuano a piovere le bombe israeliane che seminano morte e distruzione. Il bilancio dei raid dell’esercito israeliano (IDF), avvenuti nelle ultime 24 ore, è agghiacciante: almeno 95 vittime e 440 civili feriti, in una dinamica che sembra confermare la tanto temuta escalation del conflitto.
Ancora più grave, almeno 18 dei decessi sono avvenuti in quello che l’IDF ha definito l’ennesimo “incidente”: una scuola a Khan Younis, che ospitava famiglie sfollate, è stata centrata da un bombardamento, scatenando le proteste del mondo arabo. Non meno critica la situazione nel porto di Gaza City, dove – secondo l’agenzia di stampa palestinese Wafa – un intenso bombardamento ha colpito un campo profughi, causando la morte di sette civili, molti dei quali minorenni, e un numero imprecisato di feriti.
Sempre secondo Wafa, diversi testimoni hanno riferito che gli aerei da guerra israeliani “hanno bombardato le tende che ospitavano gli sfollati”. Una versione smentita con forza dall’IDF, che – come accade ormai da quasi due anni – afferma di aver colpito “in modo mirato” un “gruppo di terroristi”.
Gaza continua a bruciare. Netanyahu insiste con l’offensiva terrestre scatenando la protesta della Croce Rossa: “La Striscia è peggio dell’inferno”
Una serie di raid ha interessato l’intera Striscia di Gaza, paralizzando il già fragile – e molto discusso – sistema di distribuzione degli aiuti umanitari. Da ieri, infatti, l’IDF ha messo in guardia i residenti di Gaza dal recarsi nelle aree che conducono ai centri di distribuzione di cibo e medicinali, in quanto – secondo il portavoce dell’esercito israeliano – “le strade che portano ai centri della Gaza Humanitarian Foundation (GHF) sono considerate zone di combattimento”.
A seguito di queste dichiarazioni, la stessa ONG ha sospeso per 24 ore la consegna degli aiuti, che – salvo colpi di scena – dovrebbe riprendere già questa mattina. Secondo quanto dichiarato da GHF, lo stop è necessario per consentire all’IDF di “svolgere le necessarie attività logistiche per accogliere un maggior numero di persone” in sicurezza, evitando gli “incidenti” che nei giorni scorsi hanno provocato morti e feriti.
Il problema è che questa sospensione, seppur limitata a un giorno, arriva in un momento particolarmente delicato: la popolazione è allo stremo e, secondo le Nazioni Unite, vive una “carestia indicibile”. L’ONU accusa l’esercito di Benjamin Netanyahu di “utilizzare la fame come arma di guerra”.
Si ferma la macchina degli aiuti umanitari
Ancora più preoccupante è il drastico calo nel flusso degli aiuti umanitari: si parla di circa 100 camion al giorno, ben lontani dai livelli pre-guerra, quando nella Striscia ne entravano circa 500. A lanciare l’allarme è James Elder, portavoce dell’UNICEF a Gaza, secondo cui “per sfamare i due milioni di residenti a Gaza, servirebbero 500-600 camion di aiuti al giorno”.
Elder ha denunciato che, oltre allo stop nella distribuzione, l’amministrazione Netanyahu “fornisce aiuti assolutamente insufficienti. Si parla di una manciata di siti di distribuzione contro i 400 attivi durante il cessate il fuoco”, sottolineando inoltre che “alle organizzazioni fidate continua a essere impedito di distribuire gli aiuti nell’enclave”.
La gravità della situazione è confermata anche dalla presidente del Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC), Mirjana Spoljaric, che alla BBC ha dichiarato senza mezzi termini: “Gaza è diventata peggio dell’inferno sulla Terra”. Secondo Spoljaric, le barbarie in corso rappresentano “il fallimento dell’umanità nel suo complesso” e accusa gli Stati che si definiscono democratici di “non fare abbastanza per porre fine alla guerra, alle sofferenze dei palestinesi e per liberare gli ostaggi israeliani”. Dichiarazioni a cui, almeno per il momento, il governo Netanyahu ha scelto di non rispondere.
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Mondo
Le proteste anti-Trump dilagano in tutti gli Stati Uniti: arresti, coprifuochi e scontri con la polizia proseguono per il settimo giorno consecutivo
Le proteste contro le politiche migratorie del presidente Donald Trump continuano ad allargarsi a macchia d’olio negli Stati Uniti, mentre cresce la tensione tra manifestanti e forze dell’ordine. Migliaia di persone sono scese in piazza la scorsa notte in numerose città, da Los Angeles a New York, per protestare contro le recenti operazioni dell’agenzia federale Ice e l’uso crescente della forza da parte dell’amministrazione.
Le mobilitazioni, iniziate venerdì scorso a Los Angeles, si sono intensificate dopo che la Casa Bianca ha disposto la mobilitazione della Guardia nazionale e dei Marine in California e imposto il coprifuoco in diverse aree urbane. La mossa ha innescato nuove manifestazioni in tutto il Paese e alimentato un clima di crescente scontro istituzionale.
Le proteste anti-Trump dilagano in tutti gli Stati Uniti: arresti, coprifuochi e scontri con la polizia proseguono per il settimo giorno consecutivo
A Seattle, nello Stato di Washington, otto persone sono state arrestate durante una manifestazione che inizialmente si era svolta in modo pacifico. La situazione è degenerata in serata, con lanci di oggetti contro la polizia e l’incendio di un cassonetto. A Spokane, sempre nello Stato di Washington, è stato dichiarato lo stato d’emergenza: oltre 30 arresti e l’impiego di fumogeni per disperdere i manifestanti.
A Las Vegas, la polizia ha dichiarato “assemblea illegale” un presidio nei pressi del tribunale federale e ha ordinato lo sgombero dell’area, minacciando arresti. A New York, circa 200 persone si sono radunate a Manhattan: anche qui si sono registrati alcuni fermi.
In Texas la Guardia nazionale è stata mobilitata preventivamente in vista di nuovi cortei. Il sindaco di Houston, John Whitmire, ha lanciato un appello alla calma. Altri cortei si sono svolti anche in Saint Louis, Denver, San Francisco, Chicago, Dallas, Filadelfia, Indianapolis, Milwaukee, Boston, Atlanta e Washington DC.
La linea dura dell’amministrazione
A Los Angeles, le autorità hanno dichiarato non autorizzata una manifestazione davanti al municipio e sono stati eseguiti tra i 20 e i 30 arresti, secondo quanto riferito dalla CNN. I disordini sarebbero scoppiati dopo una serie di retate dell’Ice, che nei giorni scorsi ha fermato decine di persone, anche nei luoghi di lavoro.
Il segretario alla Difesa, Pete Hegseth, ha difeso la scelta del presidente Trump di mobilitare le forze armate. Parlando davanti al Congresso, ha definito l’intervento “necessario per creare un precedente” da replicare in altri Stati. “Si tratta anche di prevenzione – ha detto – se altrove si dovessero verificare rivolte o minacce alle forze dell’ordine, avremo la capacità di intervenire rapidamente”.
Non sono mancate critiche al governatore democratico della California, Gavin Newsom, accusato di “reticenza” nel cooperare con le forze federali. Anche la procuratrice generale Pam Bondi ha dichiarato che l’amministrazione “non ha paura di andare oltre”, lasciando intendere che il ricorso alla Legge sull’insurrezione – che autorizza l’impiego dell’esercito per sedare disordini interni – resta un’opzione concreta.
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Mondo
Nel mondo ci sono 122 milioni di sfollati da guerre, persecuzioni e violenze. Le Nazioni Unite lanciano l’allarme per l’instabilità globale
Sono oltre 122 milioni le persone costrette a fuggire da guerre, persecuzioni e violenze nel mondo. A certificarlo è l’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, che oggi ha pubblicato il suo rapporto annuale Global Trends. Il dato – aggiornato ad aprile 2025 – rappresenta l’ennesimo record in una tendenza ininterrotta da dieci anni.
“Alla fine di aprile 2025 c’erano 122,1 milioni di persone costrette a fuggire dalle loro case, contro i 120 milioni dello scorso anno”, si legge nel rapporto. A pesare maggiormente, come evidenzia l’Onu, sono i conflitti in Sudan, Myanmar e Ucraina, ma anche l’incapacità della politica internazionale di fermare i combattimenti.
Secondo l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi, “viviamo in un periodo di intensa volatilità nelle relazioni internazionali, con la guerra moderna che crea un panorama fragile e straziante, segnato da un’acuta sofferenza umana”. Grandi ha ribadito l’urgenza di “raddoppiare gli sforzi diplomatici per raggiungere la pace” e garantire soluzioni durature per chi è costretto a fuggire.
Sudan, la crisi peggiore al mondo
Tra i numeri più allarmanti spiccano quelli del Sudan, che con 14,3 milioni di rifugiati e sfollati interni supera la Siria (13,5 milioni) e diventa la maggiore crisi umanitaria al mondo. Seguono l’Afghanistan con 10,3 milioni e l’Ucraina con 8,8 milioni.
In totale, 73,5 milioni di persone sono oggi sfollate all’interno del proprio Paese, con un aumento di 6,3 milioni in un solo anno. I rifugiati internazionali – coloro che hanno attraversato un confine – sono invece 42,7 milioni.
I Paesi poveri sopportano il peso maggiore
Il rapporto sfata anche alcuni luoghi comuni: il 67% dei rifugiati rimane nei Paesi confinanti, e il 73% è ospitato da nazioni a basso e medio reddito. Un dato impressionante se si considera che i Paesi a basso reddito rappresentano appena il 9% della popolazione mondiale e lo 0,6% del PIL globale, ma accolgono il 19% dei rifugiati.
Tra i Paesi più impegnati ci sono Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Sudan e Uganda, che pur avendo risorse limitate offrono rifugio a milioni di persone in fuga.
Inoltre, il 60% delle persone costrette a fuggire non lascia mai il proprio Paese, rimanendo sfollato entro i confini nazionali, spesso in condizioni critiche.
Fondi umanitari fermi al 2015
Se i numeri crescono, i finanziamenti umanitari non seguono lo stesso ritmo. Secondo l’Unhcr, i fondi disponibili nel 2025 sono pari a quelli del 2015, mentre le emergenze si sono moltiplicate. “Una situazione insostenibile – avverte l’agenzia – che lascia le donne senza protezione, i bambini senza scuole, intere comunità senza acqua e cibo”.
Piccoli segnali di speranza
Nonostante il quadro drammatico, nel 2024 si è registrato un dato positivo: 9,8 milioni di persone sono tornate a casa, tra cui 1,6 milioni di rifugiati (il numero più alto degli ultimi vent’anni) e 8,2 milioni di sfollati interni. Tuttavia, molti di questi ritorni sono avvenuti in condizioni di forte instabilità politica e sociale, come accaduto in Afghanistan, dove centinaia di migliaia di persone sono rientrate in condizioni disperate.
“Abbiamo visto barlumi di speranza – ha dichiarato Filippo Grandi – quasi due milioni di siriani sono riusciti a tornare a casa. Ma ora serve un aiuto concreto per permettere loro di ricostruirsi una vita”.
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