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Da Israele arriva il via libera al ritorno degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Ma Bibi non ha pietà e prepara l’assalto finale ad Hamas

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Dopo un martellante pressing internazionale su Israele, Benjamin Netanyahu si è rassegnato e ha dato il via libera alla ripresa delle consegne di aiuti umanitari nella Striscia di Gaza.

Peccato che non ci sia stato neanche il tempo per esultare: poche ore dopo l’annuncio sono arrivate dichiarazioni di fuoco da parte del governo israeliano — che lasciano presagire come il peggio debba ancora arrivare — e si è verificato anche un “incidente” con l’aviazione israeliana che, secondo quanto riportato dall’Ong britannica Medical Aid for Palestinians, avrebbe colpito e “ridotto in cenere” dei magazzini contenenti medicinali destinati all’enclave palestinese.

Da Israele arriva il via libera al ritorno degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Ma Bibi non ha pietà e prepara l’assalto finale ad Hamas

Il primo ministro israeliano, annunciando la ripresa delle forniture umanitarie, ha dichiarato: “Per completare la vittoria, sconfiggere Hamas e liberare i nostri ostaggi, non dobbiamo raggiungere uno stato di fame nella Striscia di Gaza: sia dal punto di vista pratico che politico, altrimenti i Paesi alleati non ci sosterranno”.

Del resto, senza cibo e medicinali “ci stiamo rapidamente avvicinando alla linea rossa”, ossia la carestia, che potrebbe portare a “una situazione in cui potremmo perdere il controllo, e allora tutto crollerebbe”.

Ma che quella di Bibi non sia un’apertura alla pace lo ha chiarito lui stesso, affermando che, con l’operazione “Carri di Gedeone”, di fatto già iniziata da qualche giorno, “prenderemo il controllo di tutto il territorio della Striscia di Gaza” e così “sconfiggeremo definitivamente Hamas e recupereremo i nostri ostaggi”.

Parole a cui ha fatto eco il ministro delle Finanze israeliano e leader dell’estrema destra Bezalel Smotrich, secondo cui l’offensiva segue un “approccio completamente diverso da qualsiasi cosa vista in passato. Niente più incursioni o operazioni lampo: ora conquistiamo, purifichiamo e restiamo. Finché Hamas non sarà distrutta”.

Negoziati in stallo

Davanti a queste affermazioni, sembra ormai tramontata la speranza di negoziati di pace che possano porre fine a questa brutale guerra. Il leader di Hamas, Sami Abu Zuhri, citato dal quotidiano Al-Quds, ha smentito le indiscrezioni dei giorni scorsi secondo cui il movimento palestinese avrebbe accettato il rilascio di dieci ostaggi in cambio della liberazione di centinaia di prigionieri palestinesi e di una tregua di due mesi.

“Israele sta cercando di confondere il quadro con notizie false, al fine di fare pressione sulla resistenza”, ha dichiarato Abu Zuhri, sostenendo che se l’accordo non c’è stato è perché Netanyahu non lo vuole.

Il capo di Hamas ha però ribadito “la disponibilità del movimento a rilasciare tutti gli ostaggi, a condizione che l’occupazione finisca e Israele si impegni in un cessate il fuoco internazionale”. Una proposta su cui, come già accaduto in passato, Netanyahu non ha neanche commentato.

Ma a parlare sono i fatti, che mostrano una nuova escalation nella regione mediorientale. Il gabinetto di sicurezza israeliano ha infatti approvato il piano del ministro della Difesa, Israel Katz, per la costruzione di una barriera di sicurezza ad alta tecnologia lungo il confine con la Giordania, e per rafforzare la presenza israeliana nella Valle del Giordano.

Ma non è tutto. Nelle ultime 24 ore l’esercito israeliano (IDF) ha colpito duramente Gaza City, causando almeno 23 morti, e sta letteralmente martellando la città di Khan Younis, nel sud della Striscia. Proprio in quest’ultima città la situazione sta peggiorando di ora in ora: l’IDF ha annunciato una maxi operazione imminente, per la quale ha ordinato ai civili di evacuare al più presto Khan Younis, altrimenti non potrà garantirne l’incolumità.

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Mondo

Nel mondo ci sono 122 milioni di sfollati da guerre, persecuzioni e violenze. Le Nazioni Unite lanciano l’allarme per l’instabilità globale

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Sono oltre 122 milioni le persone costrette a fuggire da guerre, persecuzioni e violenze nel mondo. A certificarlo è l’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, che oggi ha pubblicato il suo rapporto annuale Global Trends. Il dato – aggiornato ad aprile 2025 – rappresenta l’ennesimo record in una tendenza ininterrotta da dieci anni.

“Alla fine di aprile 2025 c’erano 122,1 milioni di persone costrette a fuggire dalle loro case, contro i 120 milioni dello scorso anno”, si legge nel rapporto. A pesare maggiormente, come evidenzia l’Onu, sono i conflitti in Sudan, Myanmar e Ucraina, ma anche l’incapacità della politica internazionale di fermare i combattimenti.

Secondo l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi, “viviamo in un periodo di intensa volatilità nelle relazioni internazionali, con la guerra moderna che crea un panorama fragile e straziante, segnato da un’acuta sofferenza umana”. Grandi ha ribadito l’urgenza di “raddoppiare gli sforzi diplomatici per raggiungere la pace” e garantire soluzioni durature per chi è costretto a fuggire.

Sudan, la crisi peggiore al mondo

Tra i numeri più allarmanti spiccano quelli del Sudan, che con 14,3 milioni di rifugiati e sfollati interni supera la Siria (13,5 milioni) e diventa la maggiore crisi umanitaria al mondo. Seguono l’Afghanistan con 10,3 milioni e l’Ucraina con 8,8 milioni.

In totale, 73,5 milioni di persone sono oggi sfollate all’interno del proprio Paese, con un aumento di 6,3 milioni in un solo anno. I rifugiati internazionali – coloro che hanno attraversato un confine – sono invece 42,7 milioni.

I Paesi poveri sopportano il peso maggiore

Il rapporto sfata anche alcuni luoghi comuni: il 67% dei rifugiati rimane nei Paesi confinanti, e il 73% è ospitato da nazioni a basso e medio reddito. Un dato impressionante se si considera che i Paesi a basso reddito rappresentano appena il 9% della popolazione mondiale e lo 0,6% del PIL globale, ma accolgono il 19% dei rifugiati.

Tra i Paesi più impegnati ci sono Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Sudan e Uganda, che pur avendo risorse limitate offrono rifugio a milioni di persone in fuga.

Inoltre, il 60% delle persone costrette a fuggire non lascia mai il proprio Paese, rimanendo sfollato entro i confini nazionali, spesso in condizioni critiche.

Fondi umanitari fermi al 2015

Se i numeri crescono, i finanziamenti umanitari non seguono lo stesso ritmo. Secondo l’Unhcr, i fondi disponibili nel 2025 sono pari a quelli del 2015, mentre le emergenze si sono moltiplicate. “Una situazione insostenibile – avverte l’agenzia – che lascia le donne senza protezione, i bambini senza scuole, intere comunità senza acqua e cibo”.

Piccoli segnali di speranza

Nonostante il quadro drammatico, nel 2024 si è registrato un dato positivo: 9,8 milioni di persone sono tornate a casa, tra cui 1,6 milioni di rifugiati (il numero più alto degli ultimi vent’anni) e 8,2 milioni di sfollati interni. Tuttavia, molti di questi ritorni sono avvenuti in condizioni di forte instabilità politica e sociale, come accaduto in Afghanistan, dove centinaia di migliaia di persone sono rientrate in condizioni disperate.

“Abbiamo visto barlumi di speranza – ha dichiarato Filippo Grandi – quasi due milioni di siriani sono riusciti a tornare a casa. Ma ora serve un aiuto concreto per permettere loro di ricostruirsi una vita”.

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Guerra Ucraina

Ucraina, raid prima di un nuovo scambio

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Colpite Kharkiv e Odessa. Oggi il rientro di mille soldati feriti

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Guerra Ucraina

Don Stefano Caprio: “Nell’URSS c’era più libertà che nella Russia di Putin. Leone XIV? Più diplomatico, Francesco bloccato per eccesso di protagonismo”

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Vladimir Medinsky, capo della delegazione russa nei negoziati di Istanbul con l’Ucraina, ha detto al Wall Street Journal che Mosca vuole la pace. Il problema però è che per il consigliere de Cremlino, se Kyiv “continuerà a lasciarsi guidare dagli interessi nazionali altrui, allora saremo semplicemente costretti a reagire”. E in questa “reazione” da parte russa, c’è anche la conquista di altri territori. Uno, in particolare, sembra essere quello di Dnipro, dove le truppe russe iniziano a premere con sempre maggiore forza. E mentre la Russia ha restituito 1.212 corpi di militari ucraini caduti in guerra (in attesa del nuovo scambio di prigionieri feriti che avverrà oggi), i raid contro le città del Paese invaso non si fermano. Ieri, altre tre vittime si sono registrate a Kharkiv, colpita da una nuova pioggia di droni.

Attacchi che per Volodymyr Zelensky confermano che “la pressione attuale non è sufficiente” a fermare Mosca. E le speranze di un negoziato per una pace “giusta” sembrano ormai appese a un filo sempre più sottile. Donald Trump ci spera, altri Stati si muovono. E tra le forze globali coinvolte nel tentativo di dialogo c’è anche la Santa Sede. Un attore che ha cercato in ogni modo di fare da mediatore, soprattutto sul lato umanitario E che adesso, con Papa Leone XIV, cerca di rafforzare il suo impegno diplomatico. E per don Stefano Caprio, professore di storia e cultura russa al Pontificio Istituto Orientale di Roma, la telefonata tra Leone e Vladimir Putin è un primo segnale da non sottovalutare.

Professore, quanto è reale l’interesse di Putin per le parole e le mosse del pontefice?
«In Russia si guarda da sempre con attenzione al Vaticano, perché Mosca vuole essere la ‘Terza Roma’. Ai tempi sovietici, il papato era il primo nemico, quindi quello a cui guardare più attentamente… e Putin ha imparato da Josip Stalin».

E di Unione Sovietica lei ne sa qualcosa. Com’è stato il suo periodo di missione in Russia?
«Sono andato lì per la prima volta nel 1982, era ancora vivo Leonid Breznev, e ho lavorato stabilmente in Russia dal 1987 al 2002. Ho visto tutti i passaggi di epoca, ma devo dire che in Unione Sovietica c’era più libertà che nella Russia di Putin. Mentre il decennio di Boris Eltsin è stato il classico ‘periodo di passaggio’ della storia russa, dove tutto si è rimesso in gioco, ed è stato veramente emozionante».

Tornando all’attualità, Leone è molto diverso da Francesco. Qual è la loro differenza nel rapporto con la Russia?
«La differenza principale non sta tanto nella personalità, comunque abbastanza evidente, ma nell’uso della diplomazia che ha permesso una telefonata diretta con Putin. A Francesco non era riuscito per il suo eccesso di protagonismo, di certo non gradito al Cremlino».

Dopo che Mosca ha bocciato il negoziato proposto dalla Santa Sede, cosa spera di ottenere Putin dal Vaticano?
«La bocciatura non è stata definitiva ma solo interlocutoria, e le motivazioni di Sergei Lavrov sono indicative. Innanzitutto, ha parlato di sede inopportuna per due Paesi ortodossi, riconoscendo di fatto all’Ucraina lo status di Paese. Poi ora dialogano a Istanbul, sede del patriarcato di Costantinopoli. Ma vista l’inconsistenza delle trattative, si potrebbe davvero tornare alla “prima Roma”, più capace di dialogare con Mosca rispetto alle altre Chiese e Paesi ortodossi».

Quali sono le “armi” di Leone nei rapporti tra i due Stati in guerra?
«Un’arma fondamentale, dal punto di vista della Russia, sono le motivazioni. Mosca è entrata in guerra dicendo di ‘difendere gli autentici valori morali e spirituali’ contro il degradato Occidente e la ‘nazificata’ Ucraina. La Santa Sede è l’interlocutore privilegiato per il dialogo sui “valori”, e papa Leone sembra più affidabile in questo senso. Rimangono inoltre le interlocuzioni per le azioni umanitarie, che non solo un’esclusiva del Vaticano, ma che ha grande importanza in questo campo».

Pensa che sia possibile un viaggio del Papa a Kyiv o a Mosca?
«Non è una questione attuale, ma certamente si riproporrà dopo un eventuale accordo di pace, e potrebbe essere un suggello molto simbolico di una situazione per ora ancora troppo instabile».

Leone tenterà un dialogo con il Patriarcato di Mosca, o prediligerà i rapporti con quello di Costantinopoli?
«La Chiesa cattolica è quella che ha il rapporto migliore con la Chiesa russa, se non si considerano quelle di Antiochia e di Serbia, anch’essi comunque ambigui. Le altre Chiese legate a Costantinopoli non dialogano con Mosca, e Roma può essere invece un centro di confronto veramente “ecumenico”. Inoltre, il patriarca Kirill desidera certamente rinnovare l’incontro con il papa, dopo quello con Francesco nel 2016, tanto più con Leone, americano del nord e del sud. Magari proporrà di nuovo una sede neutra e simbolica come Cuba, o in Perù».

L’articolo Don Stefano Caprio: “Nell’URSS c’era più libertà che nella Russia di Putin. Leone XIV? Più diplomatico, Francesco bloccato per eccesso di protagonismo” proviene da Il Riformista.

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