Mondo
A Gaza torna la speranza: Hamas e Israele sarebbero vicini all’intesa che prevederebbe due mesi di tregua. Ma intanto l’Idf annuncia un’offensiva “senza precedenti” su Khan Younis
Mentre la Striscia di Gaza continua a bruciare, in modo del tutto inatteso si riaccende la speranza di un possibile accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas. A darne notizia è Sky News Arabia, secondo cui il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, nei prossimi giorni dovrebbe annunciare la sospensione temporanea delle ostilità. In cambio, Hamas — sempre stando alle indiscrezioni di stampa — offrirebbe il rilascio dei 58 ostaggi israeliani, tra vivi e morti, ancora nelle sue mani.
Che la situazione sia in rapida evoluzione lo lasciano intendere i rumor rilanciati dall’agenzia di stampa libanese Al-Mayadeen e confermati dal Times of Israel, secondo cui la delegazione di Benjamin Netanyahu, attualmente al Cairo per negoziare la fine del conflitto mediorientale, avrebbe accettato la proposta di un cessate il fuoco nella Striscia della durata di circa 70 giorni. Durante la tregua, 10 ostaggi — cinque vivi e cinque deceduti — verrebbero rilasciati in due fasi.
A Gaza torna la speranza: al Cairo proseguono i negoziati con Hamas e Israele vicini all’intesa che prevederebbe due mesi di tregua
In attesa di capire come andrà a finire questa ennesima trattativa diplomatica, nella Striscia di Gaza continua il bagno di sangue causato dai pesantissimi raid dell’esercito israeliano (IDF). A spiegare quanto intensa sia l’offensiva è l’Aeronautica militare di Tel Aviv che, su X, ha dichiarato di aver “effettuato oltre 200 attacchi nella Striscia di Gaza nelle ultime 48 ore, colpendo miliziani, depositi di armi, postazioni anticarro e di cecchini, tunnel sotterranei e altre infrastrutture”.
Tra i bersagli, anche la scuola Al-Jarjawi, che ospitava famiglie sfollate nel quartiere di Al-Daraj, a Gaza. Il bombardamento ha causato almeno 36 vittime, in gran parte donne e bambini. Un attacco brutale, fortemente contestato dai leader arabi, che l’esercito israeliano ha ammesso e giustificato affermando che il bersaglio erano “terroristi di spicco” di Hamas, nascosti all’interno dell’edificio e intenzionati a utilizzarlo come “centro di comando” per pianificare attacchi contro civili israeliani e truppe delle IDF.
Ma non è tutto. A dispetto delle testimonianze raccolte da numerose ong, l’esercito israeliano ha dichiarato di aver adottato “molte misure” per mitigare i danni ai civili, tra cui l’impiego di munizioni di precisione, sorveglianza aerea e altre forme di intelligence. Particolarmente critica anche la situazione a Jabalia, nel nord della Striscia, dove — secondo una fonte medica citata dall’agenzia Anadolu — un altro raid avrebbe causato almeno 19 morti.
Ma la cosa peggiore è che la situazione rischia di aggravarsi ulteriormente, di fatto smentendo le indiscrezioni su un accordo di pace che sarebbe “vicinissimo”, visto che il portavoce dell’Idf, con un messaggio in lingua araba, ha annunciato che l’esercito israeliano ha avviato un’operazione militare “senza precedenti” contro le capacità dei gruppi armati che continuano a lanciare razzi su Israele dall’area di Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza, ordinando “l’evacuazione immediata” della città.
Emergenza fuori controllo
L’offensiva di terra e i bombardamenti a tappeto stanno aggravando ulteriormente l’emergenza umanitaria nella Striscia di Gaza. A darne conto è Rosario Valastro, presidente della Croce Rossa Italiana (Cri), secondo cui “cresce la preoccupazione per questa nuova escalation di violenza nella Striscia di Gaza. Lo scenario è sempre più critico, la crisi umanitaria gravissima. Ha ragione chi definisce questa una ‘ferita aperta per l’umanità’. Non c’è rispetto per la vita, per i diritti umani e per il Diritto Internazionale Umanitario, non c’è rispetto per chi soffre e per chi aiuta”.
Lo stesso presidente della Cri ha poi aggiunto: “Davanti a tutto questo non si può far altro che rimarcare la gravità di una situazione che da troppo tempo è ormai fuori controllo. Mi unisco al dolore dei familiari e dei colleghi del nostro Movimento per la scomparsa di due operatori del Comitato Internazionale di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa, che domenica hanno perso la vita a Gaza, in un luogo dove — nonostante l’ingresso degli aiuti provenienti dall’Italia nell’ambito del progetto Food For Gaza, di cui siamo parte — il quadro resta gravissimo: l’accesso al cibo non è garantito a tutta la popolazione e le strutture sanitarie, le poche ancora attive, sono al collasso”.
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Mondo
Sulla guerra in Ucraina, Usa e Ue sempre più distanti. Bruxelles vara il 18esimo pacchetto di sanzioni contro Mosca mentre Washington pensa a tagliare gli aiuti militari a Kiev
Con la Russia che continua a bombardare l’Ucraina e ad avanzare nel Donbass, dove ha conquistato altri due villaggi, l’Unione Europea e gli Stati Uniti appaiono sempre più distanti sui passi da intraprendere per spingere le parti a porre fine alla guerra in Ucraina. Infatti, mentre il Consiglio UE ha dato il via libera a nuovi dazi sui prodotti agricoli e su alcuni fertilizzanti provenienti da Russia e Bielorussia, non ancora soggetti a dazi doganali aggiuntivi, così da ridurre la capacità di Mosca di finanziare la guerra, da Washington si preferisce evitare nuove sanzioni contro il Cremlino, scegliendo invece di fare pressioni su Volodymyr Zelensky.
A dirlo in modo chiaro è stato il Segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Pete Hegseth, che, in audizione al Congresso americano, ha ribadito che Donald Trump, dopo aver dirottato una fornitura di circa 20mila missili antiaerei dall’Ucraina al Medio Oriente, sta seriamente pensando di “ridurre ulteriormente gli aiuti militari a Kiev”.
Parole a cui ha risposto Zelensky, dicendosi sicuro — in un’intervista alla Bild — che “la Russia stia mentendo a Trump”, raccontandogli della propria disponibilità a trattare al fine di fare “in modo che non vengano applicate nuove sanzioni” nei confronti del Cremlino.
Lo zar “cerca semplicemente ragioni per attaccare. Non vuole mettere fine alla guerra”, ha aggiunto il leader di Kiev, prima di ammettere che l’eventuale riduzione delle forniture americane sarebbe “dolorosa” e potrebbe causare potenziali “conseguenze disastrose” per l’intero ordine mondiale.
Sulla guerra in Ucraina, Usa e Ue sempre più distanti. Bruxelles vara il 18esimo pacchetto di sanzioni contro Mosca mentre Washington pensa a tagliare gli aiuti militari a Kiev
In questo scenario appare chiaro come il supporto dell’UE sia letteralmente vitale per la resistenza dell’Ucraina. Lo sa bene Zelensky che, sempre parlando con la Bild, ha chiesto all’Europa “maggiori sforzi per fornire sistemi di difesa anti-aerea”, auspicando anche “una veloce consegna dei missili Taurus” da parte del cancelliere Friedrich Merz.
Ed è in questo contesto che Bruxelles, rinnovando il suo supporto all’Ucraina “fino a quando sarà necessario”, ha dato il via libera al 18° pacchetto di sanzioni contro Mosca.
Misure che hanno mandato su tutte le furie il Cremlino, con l’amministrazione di Vladimir Putin che ha promesso di “rispondere alle sanzioni come abbiamo già fatto in precedenza”, ricordando come “con le sanzioni, gli europei spesso si danno la zappa sui piedi”, mentre — secondo Mosca — le conseguenze per la Russia sarebbero “minime”.
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Le proteste anti-Trump dilagano in tutti gli Stati Uniti: arresti, coprifuochi e scontri con la polizia proseguono per il settimo giorno consecutivo
Le proteste contro le politiche migratorie del presidente Donald Trump continuano ad allargarsi a macchia d’olio negli Stati Uniti, mentre cresce la tensione tra manifestanti e forze dell’ordine. Migliaia di persone sono scese in piazza la scorsa notte in numerose città, da Los Angeles a New York, per protestare contro le recenti operazioni dell’agenzia federale Ice e l’uso crescente della forza da parte dell’amministrazione.
Le mobilitazioni, iniziate venerdì scorso a Los Angeles, si sono intensificate dopo che la Casa Bianca ha disposto la mobilitazione della Guardia nazionale e dei Marine in California e imposto il coprifuoco in diverse aree urbane. La mossa ha innescato nuove manifestazioni in tutto il Paese e alimentato un clima di crescente scontro istituzionale.
Le proteste anti-Trump dilagano in tutti gli Stati Uniti: arresti, coprifuochi e scontri con la polizia proseguono per il settimo giorno consecutivo
A Seattle, nello Stato di Washington, otto persone sono state arrestate durante una manifestazione che inizialmente si era svolta in modo pacifico. La situazione è degenerata in serata, con lanci di oggetti contro la polizia e l’incendio di un cassonetto. A Spokane, sempre nello Stato di Washington, è stato dichiarato lo stato d’emergenza: oltre 30 arresti e l’impiego di fumogeni per disperdere i manifestanti.
A Las Vegas, la polizia ha dichiarato “assemblea illegale” un presidio nei pressi del tribunale federale e ha ordinato lo sgombero dell’area, minacciando arresti. A New York, circa 200 persone si sono radunate a Manhattan: anche qui si sono registrati alcuni fermi.
In Texas la Guardia nazionale è stata mobilitata preventivamente in vista di nuovi cortei. Il sindaco di Houston, John Whitmire, ha lanciato un appello alla calma. Altri cortei si sono svolti anche in Saint Louis, Denver, San Francisco, Chicago, Dallas, Filadelfia, Indianapolis, Milwaukee, Boston, Atlanta e Washington DC.
La linea dura dell’amministrazione
A Los Angeles, le autorità hanno dichiarato non autorizzata una manifestazione davanti al municipio e sono stati eseguiti tra i 20 e i 30 arresti, secondo quanto riferito dalla CNN. I disordini sarebbero scoppiati dopo una serie di retate dell’Ice, che nei giorni scorsi ha fermato decine di persone, anche nei luoghi di lavoro.
Il segretario alla Difesa, Pete Hegseth, ha difeso la scelta del presidente Trump di mobilitare le forze armate. Parlando davanti al Congresso, ha definito l’intervento “necessario per creare un precedente” da replicare in altri Stati. “Si tratta anche di prevenzione – ha detto – se altrove si dovessero verificare rivolte o minacce alle forze dell’ordine, avremo la capacità di intervenire rapidamente”.
Non sono mancate critiche al governatore democratico della California, Gavin Newsom, accusato di “reticenza” nel cooperare con le forze federali. Anche la procuratrice generale Pam Bondi ha dichiarato che l’amministrazione “non ha paura di andare oltre”, lasciando intendere che il ricorso alla Legge sull’insurrezione – che autorizza l’impiego dell’esercito per sedare disordini interni – resta un’opzione concreta.
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Mondo
Nel mondo ci sono 122 milioni di sfollati da guerre, persecuzioni e violenze. Le Nazioni Unite lanciano l’allarme per l’instabilità globale
Sono oltre 122 milioni le persone costrette a fuggire da guerre, persecuzioni e violenze nel mondo. A certificarlo è l’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, che oggi ha pubblicato il suo rapporto annuale Global Trends. Il dato – aggiornato ad aprile 2025 – rappresenta l’ennesimo record in una tendenza ininterrotta da dieci anni.
“Alla fine di aprile 2025 c’erano 122,1 milioni di persone costrette a fuggire dalle loro case, contro i 120 milioni dello scorso anno”, si legge nel rapporto. A pesare maggiormente, come evidenzia l’Onu, sono i conflitti in Sudan, Myanmar e Ucraina, ma anche l’incapacità della politica internazionale di fermare i combattimenti.
Secondo l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi, “viviamo in un periodo di intensa volatilità nelle relazioni internazionali, con la guerra moderna che crea un panorama fragile e straziante, segnato da un’acuta sofferenza umana”. Grandi ha ribadito l’urgenza di “raddoppiare gli sforzi diplomatici per raggiungere la pace” e garantire soluzioni durature per chi è costretto a fuggire.
Sudan, la crisi peggiore al mondo
Tra i numeri più allarmanti spiccano quelli del Sudan, che con 14,3 milioni di rifugiati e sfollati interni supera la Siria (13,5 milioni) e diventa la maggiore crisi umanitaria al mondo. Seguono l’Afghanistan con 10,3 milioni e l’Ucraina con 8,8 milioni.
In totale, 73,5 milioni di persone sono oggi sfollate all’interno del proprio Paese, con un aumento di 6,3 milioni in un solo anno. I rifugiati internazionali – coloro che hanno attraversato un confine – sono invece 42,7 milioni.
I Paesi poveri sopportano il peso maggiore
Il rapporto sfata anche alcuni luoghi comuni: il 67% dei rifugiati rimane nei Paesi confinanti, e il 73% è ospitato da nazioni a basso e medio reddito. Un dato impressionante se si considera che i Paesi a basso reddito rappresentano appena il 9% della popolazione mondiale e lo 0,6% del PIL globale, ma accolgono il 19% dei rifugiati.
Tra i Paesi più impegnati ci sono Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Sudan e Uganda, che pur avendo risorse limitate offrono rifugio a milioni di persone in fuga.
Inoltre, il 60% delle persone costrette a fuggire non lascia mai il proprio Paese, rimanendo sfollato entro i confini nazionali, spesso in condizioni critiche.
Fondi umanitari fermi al 2015
Se i numeri crescono, i finanziamenti umanitari non seguono lo stesso ritmo. Secondo l’Unhcr, i fondi disponibili nel 2025 sono pari a quelli del 2015, mentre le emergenze si sono moltiplicate. “Una situazione insostenibile – avverte l’agenzia – che lascia le donne senza protezione, i bambini senza scuole, intere comunità senza acqua e cibo”.
Piccoli segnali di speranza
Nonostante il quadro drammatico, nel 2024 si è registrato un dato positivo: 9,8 milioni di persone sono tornate a casa, tra cui 1,6 milioni di rifugiati (il numero più alto degli ultimi vent’anni) e 8,2 milioni di sfollati interni. Tuttavia, molti di questi ritorni sono avvenuti in condizioni di forte instabilità politica e sociale, come accaduto in Afghanistan, dove centinaia di migliaia di persone sono rientrate in condizioni disperate.
“Abbiamo visto barlumi di speranza – ha dichiarato Filippo Grandi – quasi due milioni di siriani sono riusciti a tornare a casa. Ma ora serve un aiuto concreto per permettere loro di ricostruirsi una vita”.
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