Mondo
A Gaza comanda Netanyahu, Israele abborda la nave umanitaria con a bordo Greta Thunberg: “Antisemiti che tifano per Hamas”
Si è concluso nel peggiore dei modi il tentativo di aggirare il blocco alla consegna degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza da parte della Freedom Flotilla Coalition. Dopo che nei giorni scorsi l’esercito israeliano (IDF) si era detto “pronto” a intervenire nel caso in cui la nave umanitaria Madleen, con a bordo l’attivista svedese Greta Thunberg e l’eurodeputata Rima Hassan, si fosse avvicinata alle coste palestinesi, l’imbarcazione è stata circondata e abbordata dalle truppe di Tel Aviv.
A raccontare in diretta quanto stava accadendo è stata la stessa organizzazione che, nella notte tra domenica e lunedì, ha fatto sapere: “Le comunicazioni con la Madleen sono state interrotte. L’esercito israeliano è salito a bordo” e che l’equipaggio sarebbe stato “rapito dalle forze israeliane”, in palese violazione del diritto internazionale e del diritto umanitario.
A Gaza comanda Netanyahu, Israele abborda la nave umanitaria con a bordo Greta Thunberg: “Antisemiti che tifano per Hamas”
L’imbarcazione, partita dall’Italia il primo giugno per “rompere il blocco israeliano”, si stava dirigendo verso Gaza dopo una sosta in Egitto, nonostante le minacce dell’IDF.
Arrivata a 31 miglia nautiche dalla costa, pari a 57 chilometri, la Madleen è stata accerchiata da navi da guerra israeliane, che sono intervenute prendendo il controllo del natante e dirottandolo “verso Israele”.
Secondo quanto dichiarano le autorità di Tel Aviv, i membri dell’equipaggio – definiti dal ministro Israel Katz come “antisemiti” e fondamentalmente in cerca di notorietà – saranno rimpatriati d’urgenza nei Paesi di origine. Tuttavia, prima dell’espulsione, sempre secondo Katz, “è giusto che l’antisemita Greta (Thunberg) e i suoi amici sostenitori di Hamas vedano esattamente chi è l’organizzazione terroristica Hamas, quella che sono venuti a sostenere e per conto della quale agiscono, e le atrocità che ha commesso contro donne, anziani e bambini, e contro cui Israele sta lottando per difendersi”.
Un atto di forza che ha fatto sollevare il mondo arabo – con Turchia e Iran in prima fila – e ha scatenato le proteste di Amnesty International, secondo cui “la nave Madleen della @GazaFFlotilla cercava di portare aiuti umanitari nel tentativo di violare l’illegale blocco israeliano della Striscia di Gaza occupata. Trasportava civili disarmati in missione umanitaria. L’intercettazione da parte di Israele viola il diritto internazionale”.
E ancora: “In quanto potenza occupante, Israele ha l’obbligo legale di garantire ai civili di Gaza cibo e medicine a sufficienza” e “avrebbe dovuto permettere alla Madleen di consegnare gli aiuti umanitari”. Per questo “chiediamo alla comunità internazionale di fare molto di più rispetto a quanto fatto finora contro il genocidio, l’occupazione militare e l’apartheid”.
La pioggia di bombe
Una levata di scudi che non ha sortito effetto. Israele ha preferito non rispondere alle accuse.
Nel frattempo, l’esercito israeliano – su ordine del primo ministro Benjamin Netanyahu – è tornato a colpire duramente la Striscia di Gaza dove, in appena 48 ore, avrebbe causato la morte di una settantina di palestinesi e il ferimento di altri 388, secondo fonti locali.
Tra i bombardamenti, si sarebbe verificato l’ennesimo “incidente”: otto palestinesi sarebbero stati uccisi dalle forze israeliane a Rafah, nel sud della Striscia, mentre attendevano la consegna di aiuti alimentari. Un attacco che, per ora, non trova conferme ufficiali: l’accesso all’area è precluso ai giornalisti e l’esercito israeliano mantiene il più stretto riserbo.
Come se non bastasse, continua a infiammarsi anche la Cisgiordania, dove l’IDF ha condotto una maxi operazione che ha portato all’arresto di 35 sospettati all’interno di un laboratorio di esplosivi a Tulkarem. Un blitz che ha scatenato le proteste di Hamas, secondo cui Netanyahu conferma di “non volere la pace”.
Caos in Israele
Mentre la guerra prosegue da quasi due anni e i negoziati per il cessate il fuoco restano in stallo, in Israele monta la protesta contro il governo Netanyahu.
Il partito ultraortodosso Shas – che fa parte della coalizione di governo – ha annunciato che mercoledì voterà a favore della legge per lo scioglimento del Parlamento (la Knesset), che, se approvata, porterebbe a nuove elezioni.
Una presa di posizione netta, dovuta al fatto che “il partito è deluso da Netanyahu”, che – nonostante le rassicurazioni dei mesi scorsi – non ha ancora approvato la legge per esentare gli studenti delle scuole religiose (yeshiva) dalla leva obbligatoria.
Una possibile crisi di governo che Netanyahu vuole scongiurare a tutti i costi, tanto da aver promesso un incontro con il leader di Shas per trovare un accordo ed evitare il ritorno alle urne.
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Guerra Ucraina
Ucraina, raid prima di un nuovo scambio
Colpite Kharkiv e Odessa. Oggi il rientro di mille soldati feriti
Guerra Ucraina
Don Stefano Caprio: “Nell’URSS c’era più libertà che nella Russia di Putin. Leone XIV? Più diplomatico, Francesco bloccato per eccesso di protagonismo”
Vladimir Medinsky, capo della delegazione russa nei negoziati di Istanbul con l’Ucraina, ha detto al Wall Street Journal che Mosca vuole la pace. Il problema però è che per il consigliere de Cremlino, se Kyiv “continuerà a lasciarsi guidare dagli interessi nazionali altrui, allora saremo semplicemente costretti a reagire”. E in questa “reazione” da parte russa, c’è anche la conquista di altri territori. Uno, in particolare, sembra essere quello di Dnipro, dove le truppe russe iniziano a premere con sempre maggiore forza. E mentre la Russia ha restituito 1.212 corpi di militari ucraini caduti in guerra (in attesa del nuovo scambio di prigionieri feriti che avverrà oggi), i raid contro le città del Paese invaso non si fermano. Ieri, altre tre vittime si sono registrate a Kharkiv, colpita da una nuova pioggia di droni.
Attacchi che per Volodymyr Zelensky confermano che “la pressione attuale non è sufficiente” a fermare Mosca. E le speranze di un negoziato per una pace “giusta” sembrano ormai appese a un filo sempre più sottile. Donald Trump ci spera, altri Stati si muovono. E tra le forze globali coinvolte nel tentativo di dialogo c’è anche la Santa Sede. Un attore che ha cercato in ogni modo di fare da mediatore, soprattutto sul lato umanitario E che adesso, con Papa Leone XIV, cerca di rafforzare il suo impegno diplomatico. E per don Stefano Caprio, professore di storia e cultura russa al Pontificio Istituto Orientale di Roma, la telefonata tra Leone e Vladimir Putin è un primo segnale da non sottovalutare.
Professore, quanto è reale l’interesse di Putin per le parole e le mosse del pontefice?
«In Russia si guarda da sempre con attenzione al Vaticano, perché Mosca vuole essere la ‘Terza Roma’. Ai tempi sovietici, il papato era il primo nemico, quindi quello a cui guardare più attentamente… e Putin ha imparato da Josip Stalin».
E di Unione Sovietica lei ne sa qualcosa. Com’è stato il suo periodo di missione in Russia?
«Sono andato lì per la prima volta nel 1982, era ancora vivo Leonid Breznev, e ho lavorato stabilmente in Russia dal 1987 al 2002. Ho visto tutti i passaggi di epoca, ma devo dire che in Unione Sovietica c’era più libertà che nella Russia di Putin. Mentre il decennio di Boris Eltsin è stato il classico ‘periodo di passaggio’ della storia russa, dove tutto si è rimesso in gioco, ed è stato veramente emozionante».
Tornando all’attualità, Leone è molto diverso da Francesco. Qual è la loro differenza nel rapporto con la Russia?
«La differenza principale non sta tanto nella personalità, comunque abbastanza evidente, ma nell’uso della diplomazia che ha permesso una telefonata diretta con Putin. A Francesco non era riuscito per il suo eccesso di protagonismo, di certo non gradito al Cremlino».
Dopo che Mosca ha bocciato il negoziato proposto dalla Santa Sede, cosa spera di ottenere Putin dal Vaticano?
«La bocciatura non è stata definitiva ma solo interlocutoria, e le motivazioni di Sergei Lavrov sono indicative. Innanzitutto, ha parlato di sede inopportuna per due Paesi ortodossi, riconoscendo di fatto all’Ucraina lo status di Paese. Poi ora dialogano a Istanbul, sede del patriarcato di Costantinopoli. Ma vista l’inconsistenza delle trattative, si potrebbe davvero tornare alla “prima Roma”, più capace di dialogare con Mosca rispetto alle altre Chiese e Paesi ortodossi».
Quali sono le “armi” di Leone nei rapporti tra i due Stati in guerra?
«Un’arma fondamentale, dal punto di vista della Russia, sono le motivazioni. Mosca è entrata in guerra dicendo di ‘difendere gli autentici valori morali e spirituali’ contro il degradato Occidente e la ‘nazificata’ Ucraina. La Santa Sede è l’interlocutore privilegiato per il dialogo sui “valori”, e papa Leone sembra più affidabile in questo senso. Rimangono inoltre le interlocuzioni per le azioni umanitarie, che non solo un’esclusiva del Vaticano, ma che ha grande importanza in questo campo».
Pensa che sia possibile un viaggio del Papa a Kyiv o a Mosca?
«Non è una questione attuale, ma certamente si riproporrà dopo un eventuale accordo di pace, e potrebbe essere un suggello molto simbolico di una situazione per ora ancora troppo instabile».
Leone tenterà un dialogo con il Patriarcato di Mosca, o prediligerà i rapporti con quello di Costantinopoli?
«La Chiesa cattolica è quella che ha il rapporto migliore con la Chiesa russa, se non si considerano quelle di Antiochia e di Serbia, anch’essi comunque ambigui. Le altre Chiese legate a Costantinopoli non dialogano con Mosca, e Roma può essere invece un centro di confronto veramente “ecumenico”. Inoltre, il patriarca Kirill desidera certamente rinnovare l’incontro con il papa, dopo quello con Francesco nel 2016, tanto più con Leone, americano del nord e del sud. Magari proporrà di nuovo una sede neutra e simbolica come Cuba, o in Perù».
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Guerra Ucraina
Tajani, Adam e i bimbi di Gaza: lo stesso coraggio non c’è stato con i piccoli ucraini ed ebrei
Il grande cuore italiano è talmente sensibile da dare segni di aritmia e discontinuità. I fatti: l’amministrazione USA sta cacciando tutti coloro che sbarcano come turisti e poi non se ne vanno più. Nessuna novità. Questa volta però Trump aggiunge una minaccia: coloro che non verranno riaccolti nel paese d’origine saranno deportati nella base militare di Guantanamo Bay a Cuba.
I due italiani stanno rientrando
Sarebbero circa diecimila, secondo il Washington Post, fra cui alcuni italiani che poi si scoprirà essere due, sani e salvi: nulla di apocalittico tranne il valore aggiunto emotivo evocato dal nome di Guantanamo, nata come prigione per sospetti terroristi voluta dal Presidente George W. Bush dopo l’attacco di al-Quaeda dell’11 settembre 2001. Da allora il solo nome evoca immagini di tute arancioni, la tortura detta “waterboarding”, le catene, la negazione del diritto di difendersi. Guantanamo fa paura anche se tutti i vecchi prigionieri sono stati liberati (o deceduti). La novità ottima e prevedibile (nessun italiano andrà a Guantanamo) è certamente dovuta alla tempestività del nostro ministro degli Esteri. Infatti i due italiani che risiedevano abusivamente negli Stati Uniti sono già in aereo per rientrare in Italia.
Il pensiero apocalittico di Conte
Tutto è andato bene prima ancora che si svolgesse l’annunciata telefonata fra il Segretario di Stato americano Marco Rubio e il nostro ministro degli Esteri. Ma prima si era già alzata la confusa e agitata voce di Giuseppe Conte e purtroppo anche quella in genere ragionevole di Sandro Gozi, capogruppo democratico a Bruxelles che ha ceduto alla tentazione di dire una sciocchezza affermando che i nostri connazionali sarebbero stati spediti a Guantanamo in tuta e catene senza che il nostro governo ne sapesse niente. Bene ha dunque fatto il ministro Antonio Tajani che ha disinnescato le opportunistiche intimidazioni di Conte annunciando prima di aver prenotato un appuntamento telefonico col segretario di Stato Marco Rubio e poi che il caso era già stato risolto, mettendo ancora una volta a nudo la fragilità di una opposizione prigioniera del suo stesso pensiero apocalittico. I repulisti americani sono del resto sempre avvenuti: l’amministrazione Obama scoprì a New York una colonia clandestina di ragazzi inglesi arrivati come turisti e poi spariti nella metropoli. Nulla di tragico in quel caso, come in questo dei due italiani. Il nostro ministro degli Esteri ha fatto comunque una eccellente figura.
Adam e i bimbi di Gaza in Italia
Anche se poi lo stesso ministro ha annunciato all’assemblea di Confcommercio che il bambino palestinese Adam, ferito e adottato dal governo italiano, era in volo per essere ricoverato all’ospedale Niguarda di Milano e curato per le fratture subite durante i bombardamenti. Con lui, su tre aerei italiani, erano in viaggio altri ottanta palestinesi fra cui 17 bambini e i loro familiari destinati in diversi ospedali italiani.
È certamente un’ottima notizia perché dove i bambini sono vittime delle guerre, là si impone un’etica diversa da quella della Seconda guerra mondiale, quando gli stessi morivano a centinaia di migliaia in Inghilterra, in Russia, in Germania, in Giappone. Per pura fortuna sono sopravvissuto al bombardamento del quartiere San Lorenzo di Roma del 19 luglio del 1943, ma i miei compagni rimasti sotto le macerie non fecero notizia. I bambini feriti e mutilati o sepolti vivi non hanno bandiera. Ed è sempre un atto morale soccorrerli e salvarli.
La domanda di riserva per Tajani
Bravo, dunque, governo italiano e il ministro Tajani, con una domanda di riserva. Cosa ha fatto questo stesso governo per offrire aerei, ospedali da campo e medici ai bambini ebrei del pogrom del 7 ottobre? E le centinaia di migliaia di bambini ucraini selvaggiamente strappati alle loro madri per essere ricollocati in campi di russificazione coatta per cui la corte dell’Aja ha emesso un mandato di cattura per Vladimir Putin? Abbiamo osato soccorrere rischiando, o abbiamo lasciato fare pur deplorando? Ottenere garanzie su Guantanamo richiede impegno encomiabile e offrire protezione fa rischiare solo un eccesso di applausi. Ma che cosa abbiam fatto per i bambini ucraini e per i bambini ebrei? Non sempre è facile e non sempre basta la diplomazia. Ma l’orrore e la difesa dei bambini in guerra devono essere coraggiosi e rischiosi perché riguardano l’etica e non solo la politica.
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